Requar

di Esther Celiberti

Proprio lì non pensava sarebbe finita, mai e poi mai. Che sarebbe finita con la vita di prima, quella di città, con la famiglia, l’amore pur se quello aveva séguito.

Una ascesa al Sacro Monte, un Calvario per la mondanità, un Golgota, un verde patibolo.

Lassù il sole , se appariva, fuggiva presto.

Freddo, ghiaccio o peggio pioggia in ogni dove, sui vetri, nei fiumi, dalle grondaie, nelle rogge.

Acque di fonti, acque secolari. La melanconia si radica, nasce lì, dai fossi.

E a nulla servivano gli amici, a nulla l’affetto, la natura atterriva e lei era l’Islandese.

Al confino non bastava una corriera per respirare . Anzi, proprio lì in alta quota, l’aria mancava. Annaspava, si teneva a galla nel gelo. Il confino era un confine.

E neppure la Regina Margherita che era solita passare le acque a Recoaro, neppure il povero Nietzsche, giunto lì già folle, le tesero una cima.

Annegò, annegò più volta nelle acque dell’Agno, contornata dai fiori, come Ofelia, con il viso rivolto al cielo troppo terso.

Fu salvata, incredibilmente salvata dalla stessa natura, ingombrante presenza.

Strappi, distanze,cesure, andate e ritorni subitanei da e verso sud.

Caffè di beoni, miasmi di alcool e costanti nuvole di fumo nei luoghi di ritrovo. Sprazzi di umanità nelle comunità di migranti, altre italie, relazioni anche con gli indigeni. Inquieta principessa in esilio, incerta sulla neve come qualche essere che nuotare non sa, venne mutata in anguana, a chiamare marzo nel giorno che festeggia l’arrivo della stagione nuova, l ’agognato disgelo.

Con occhi indefinibili teneva vivi i focolari, giocava dispari con la neve, la schnee della Montagna Incantata di Thomas Mann; in obliquo sul fianco del monte, spesso giocava a fare la Sibilla disdegnando i filò dei poeti contadini , rammemorando altri antri.

La neve, bianco vuoto di insignificanza, sospesa bolla di tempo contro il fuoco del camino, fiamme a lambire ardori, in un luogo senza mezze misure.

Requar in cimbro forse significa quercia, oppure rastrello La strada finisce lì, ce n’è solo un’altra che porta a Rovereto attraverso Valli del Pasubio.

Ha avuto inizio lì una parte della vita della donna / anguana, strega malgré soi , in una enclave che che con il Vicentino nulla ha da spartire.

Nonostante i lunghi e bui e cupi mesi il paese, dove le cime e le ombre delle valli comandano sugli umori degli abitanti, prende il sopravvento e la incatena, come una roccia che attira, ammaliante, una vera e propria Lorelei. L’umido costante, i volti, tristi orografie quasi tagliate dal boscaiolo , divengono silvani. La natura con regalità si impone, sceglie chi vuole alla sua tavola in un banchetto senza inviti. Dalle contrade scendono gli animali, le malghe scivolano a valle verso via Lelia e osservano l’albergo Trettenero, vorrebbero diventare eleganti come le Fonti Centrali, sede del comando nazista guidato da Kesselring. Le baite non ce la fanno a stare al passo delle mirabilia dei villini liberty di Negrin ma la loro poesia è degna dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi che, sull’altopiano di Asiago, aveva creato un laboratorio per apprendere la settima arte.

Da Asnicar, da Merendaore dove non è possibile sgarrare gli orari delle colazioni, da Giorgetti e tantissime altre contrade fluivano i recoaresi, poco più di 5000 abitanti che, della finis Austriae e del fascino delle stanze abbandonate degli alberghi dell’età aurea, poco forse sapevano o preferivano ignorare giustamente intenti a” strenzerla franco su franco “perché, ovunque si vada , gli schei non sono mai abbastanza. All’oleografia della Recoaro d’antan si susseguono altri scenari, gli stabilimenti di imbottigliamento, il turismo termale, lo sci, la decadenza. Ragnatele. Imposte chiuse.

L’anguana, ormai lontana, smessi gli zoccoli e il bigolo, non intreccia più le code ai cavalli, né scambia il sale con lo zucchero, tantomeno è perturbante.

Si accontenta di vivere nelle sue acque mentre Requar , a cadenza biennale, sfila con musiche e campanacci, carri e animali, cortei di figuranti, caccia l’inverno e chiama con pagana allegria la primavera.

Saranno ancora aperte le piste di sci? In uso la seggiovia che dal centro porta a Recoaro Mille?

E l’amato Caffè delle Colonne avrà resistito alla barbarie dei cambiamenti?

E la pasticceria dalla cui piccola sala si vedeva il fiume, nomen omen, l’Agno?

Certo è passato il tempo in cui un trio alla Bruegel di bambini delle medie faceva trovare una piccola talpa morta, nel registro di classe, alla professoressa Cespuglio, senza provocare scompigli, con grande delusione del Mariano e della Fiorella cui i compagni “ facevano le facce”…

Ortensie appassite, cremagliere dismesse più di 40 anni addietro. Chissà!

L’ anguana di notte continua a bere il caffè al bar , fuma, legge i giornali come fosse a Vienna e spariglia il mondo. Sa bene di non essere a Marienbad o a Karlsbad, ha dimenticato le storie delle donne che andavano con gli ufficiali tedeschi o molti lustri dopo con gli operai algerini della vicina Marzotto per lo scandalo del curato. “ Mondo è stato e mondo sarà “ diceva sua madre. Nella non lontana Val Morbia, quella citata da Montale, si trovano ancora le ossa dei poveri soldati, in una risorgiva che forse mai avrà fine.

Accette e tagli, orizzonti chiusi da molti valichi come guardie di frontiera. Requar fu dazio, dogana.

L’aspro pedaggio rese arduo risalire la china. E quella rorida, copiosa acqua non placava l’esistere arido laddove si moltiplicarono le ombre.

Per buona sorte, non dissolse le mirabilia di Morgana il tedio del Vecchio della Montagna.