Crispia salvia
di Esther Celiberti
Non sono la pianta aromatica la cui foglia è una sorta di lingua verdastra né i miei capelli sono ondulati.
Vi parlo e alle mie spalle ho il Mediterraneo di Lilibeo nel quale, non vista, nuoto a lungo sebbene sia proibito, chissà perché. Un’alta muraglia ad opus africanum protegge le mie bracciate dagli sguardi obliqui e sfrontati dei servi, costretti a tenere la testa bassa, e dei clientes di Demetrio, mio sposo, l’uomo che non visto poggia la fronte al bastione del fossato punico, costruito da quelli che c’erano prima.
Ignoro quali siano le terre oltre il mare. E forse è meglio così. Non so chi viva in quei luoghi.
“Massa afrorum“ dicono.
Amo questa indeterminatezza, questa sospensione di certezze. Le onde sfumano, ricompongono i cocci delle anfore disperse a riva.
Dalla parete della stanza mi guardano pavoni, melagrane, amorini. Sull’altro muro i danzatori tracciano passi vivaci. Statuette di creta e maschere di teatro popolano questi spazi, sono il mio corredo.
Come la vite di Pantelleria vivo qui da molti secoli, piantata nella terra.
Mi chiamo Crispia Salvia, questa casa è la mia tomba, non fatevi trarre in inganno.