Gilgit, Baltistan. In uno stadio dove il fondale è dipinto dai Settemila del Karakorum sta per cominciare la finale del torneo autunnale di polo pachistano, l’ennesima sfida tra Gilgit e Chilas. Perdere non è un’opzione, vincere è obbligatorio, è il più importante motivo d’orgoglio in una zona che si vanta di essere la patria del “Gioco dei re”, com’è chiamato qui.
Il polo è il più antico sport di cui si abbiano notizie documentate: sono stati ritrovati documenti che narrano di nobili disfide tra principi e re nella Persia di 2500 anni fa. Da lì si diffuse in Asia e solo nell’ultimo secolo nel resto del mondo, esportato da ufficiali delle colonie britanniche affascinati dalla velocità e aggressività del gioco. Ma, data la sua intrinseca natura selvaggia poco adatta ad aristocratici raduni sportivi, si dovettero introdurre un regolamento e un codice di fair-play, ingentilimenti che, a detta degli appassionati locali, hanno corrotto lo spirito originario, lasciando così intendere la poca stima per l‘annacquata versione inglese.
Il polo non ha e non deve avere leggi, dicono qui. Non ci sono arbitri. Vale tutto. La mazza può essere usata per colpire l’avversario sulle spalle, sugli zigomi, sul cranio, per disarcionarlo o per far inciampare il suo cavallo.
Per questo mi appare strana la cerimonia d’inizio. Mi aspettavo qualche celebrazione tribale, sullo stile della Haka maori, invece parte un balletto dalla coreografia aggraziata, con movimenti quasi femminili, accompagnato da un’orchestra di una decina di elementi che suona con foga zurna e tabla, flauti e tamburi. Prima di spaccarsi le ossa a colpi di bastone, i componenti delle due squadre danzano tutti assieme in mezzo allo stadio.
Un fischio dà inizio alla battaglia. La pallina, lanciata in aria da un vip rimbalza sul terreno e subito dodici cavalli, guidati da sei giocatori per squadra, vengono lanciati al galoppo, tutti nella stessa direzione, spronati a inseguire una minuscola sfera bianca di radica di bambù quasi invisibile, che sarà l’oggetto del desiderio per i prossimi cinquanta minuti (venticinque per tempo). Non c’è prato verde tagliato all’inglese, si alza un polverone che sommerge tutto il campo di gara e per qualche secondo si può solo immaginare ciò che sta accadendo dietro la cortina, mentre la banda continua a suonare un’ipnotica melodia circolare.
La nebbia color ocra a poco a poco si solleva, emergono le mazze, brandite ben al di sopra delle spalle a incitare la carica, i volti fieri, aggressivi e scagliati verso il punto del campo dove si è rintanato il boccino, poi le maglie, blu Gilgit e arancio Chilas, e infine i musi e le gambe dei cavalli afghani, razza veloce e resistente nata da incroci tra pony himalayani e purosangue inglesi. C’è bisogno di queste caratteristiche perché qui, a differenza del polo che conosciamo, non si possono sostituire gli animali infortunati durante il match.
Il ritmo è veloce, selvaggiamente veloce, con continui cambi di direzione. I fantini possiedono un’abilità eccezionale: cavalcano rapidissimamente e contemporaneamente si coordinano nei movimenti per rimanere in sella mentre, per poter colpire meglio, si sporgono col busto fin quasi a toccare terra, stando sempre attenti a non farsi sfasciare la testa.
Ma è quel che capita al numero 7 del Chilas, che riesce a segnare il primo goal centrando lo spazio della porta, tra due pali rossi e bianchi, ma non si accorge della stecca che da sinistra lo colpisce sullo zigomo, facendolo esultare di gioia e urlare di dolore.
La folla alza le braccia in alto, l’orchestra suona più forte. Ci saranno almeno tremila persone sugli spalti, solo uomini, le donne non sono ammesse allo stadio. Tante barbe lunghe a punta, indossano quasi tutti il vestito tradizionale, lo shalwar kameez, una lunga camicia con pantaloni alla zuava e in testa il pakul, una specie di coppola tonda di lana. È un pubblico composto che non grida o scalpita ma segue con apprensione, sgranocchiando semi di zucca, snocciolando i grani di un tasbih – il rosario musulmano – commentando le azioni: tutti allenatori anche qui.
Poi, improvvisamente, silenzio. Muti anche gli strumenti. Un muezzin dalla cima del minareto intona la preghiera del pomeriggio. “Allah akhbar”, “Allah è grande” ripete l’altoparlante, salmodiando su semitoni appesi. La partita continua nel vuoto assoluto di suono, si sentono solo gli zoccoli e il rumore sordo della pallina colpita. Stoc!
La litania termina. Nell’etere rimangono le scariche di un microfono che crepita, piccole onde che in un attimo vengono travolte dai decibel disinnescati dall’orchestra che ricomincia a suonare. Dopo varie segnature la partita finisce e gli spettatori invadono il campo issando sulle spalle i propri eroi. Il capitano del Gilgit alza in alto la coppa del torneo e ritira anche quella per il miglior cavallo.
Sulla porta d’uscita dello stadio una targa recita in inglese: "Lasciate che gli altri giochino a quel che gli pare, il Re dei giochi e sempre il Re dei giochi".