La parabola del turista

Un giorno da cubani


testo e foto di Eloisa d'Orsi

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Il turista di solito viene a Cuba per una quindicina di giorni. Passa la prima settimana sulle spiagge di Varadero, per riprendersi dal jet-lag, abbronzarsi e mangiare tartaruga; la seconda settimana nel centro storico della capitale, l’Habana Vieja, magari – se se lo può permettere – all’Hotel Sevilla, a un tiro di schioppo dalla Bodeguita del Medio, il celebre locale dove le foto alle pareti ricordano i molti personaggi della cultura e dello spettacolo che vi hanno sostato. Al Floridita, l’altro locale storico, si sente un grande intellettuale a centellinare il suo cocktailaccanto alla statua in bronzo di Hemingway. Al mercato dell’artigianato compra esotismo e altruismo cavandosela con meno di 20 euro: qualche guayabera (la tradizionale camicia di lino cubana) e un posacenere per gli amici. Solitamente compra anche una scatola di sigari puros, una bottiglia di Habana Club Reserva, e magari un disco di salsa da qualche povero cristo di talento che suona nei ristoranti di lusso. In fondo gli piace sentirsi partecipe del clima anacronisticamente ma dichiaratamente “rivoluzionario” che respira, ed è a modo suo sincero quando compra una maglietta con l’immagine del Che, o quando fotografa i murales scoloriti con le frasi di Fidel. Alla fine torna contento dal suo viaggio “impegnato” in uno degli ultimi paesi socialisti del mondo. Peccato che tutto questo abbia ben poco a che fare con la realtà cubana, e sia solo parte di un processo che presto renderà L’Avana, agli occhi di qualsiasi persona minimamente ragionevole, una città posticcia, piena di paccottiglia inguardabile. 

Estar en la luchita - C’è però un modo - a me è capitato per caso - per scoprire come vivono davvero i Cubani, e provare a capire qualcosa di quest’isola: venite qui con una American Express che nessuno accetta (come tutte le carte di credito associate a banche americane). Poi fatevi rubare i contanti nascosti nel vostro visibilissimo marsupio da straniero con un malloppo da difendere. Infine provate inutilmente a rimediare: non credo ci siano altri posti - forse la Corea del Nord - dove sia cosi complicato ricevere soldi dall'estero, telefonare, o navigare in Internet. Insomma rimanete qualche giorno a L’Avana senza un quattrino. Proverete cosa significa estar en la luchita, combattere quella guerriglia quotidiana per sopravvivere che ha preso il posto della più gloriosa rivoluzione. Privati dei vostri magici quattrini, verrete improvvisamente proiettati dall’altra parte dello specchio. 
Invece di sorseggiare placidamente mojito o daiquiri davanti a qualche bar, contemplando la decadenza degli edifici o il sinuoso passeggio delle bellezze locali, vi troverete costretti a sgomitare per ottenere un sacchetto di plastica dove mettere la vostra libbra di barbabietole in qualche “mercato agropecuario”, supplicare una manciata di sale dai funzionari della bodega, che oltretutto si rifiuteranno di vendervela giacché, in quanto straniero, non avete nemmeno la libreta. La libretade abastecimiento (tessera di razionamento) risale agli anni Settanta, e fu introdotta dopo l’embargo economico americano del 1962. La libreta prevede una distribuzione mensile strettamente razionata dei componenti essenziali dell’alimentazione e della vita quotidiana: riso, pasta, fagioli, olio, zucchero, sale, un po’ di caffè e di dentifricio, sporadicamente altri prodotti come la polpa di pomodoro e il pollo. Peccato che dalla caduta dell’Unione Sovietica, la cui alleanza con Cuba in qualche modo poteva giustificare l’embargo, siano passati oltre diciotto anni: e diciotto anni di razionamento senza particolari ragioni non sono pochi... Negli anni del Periodo especial (1993-2003) quando una saponetta costava la metà di uno stipendio minimo, il dollaro è arrivato a valere 150 pesos cubani. Oggi ne vale solo 24, e la gente se lo racconta di continuo. Qui nessuno dice che si stava meglio quando si stava peggio, perché quando si stava peggio era davvero peggio. 

Che ne è dell’Uomo nuovo- Alla fine l’embargo degli Stati Uniti è riuscito nel suo intento: ha affamato la popolazione e ha spianato la strada al turismo di massa, ormai la principale industria del Paese. Ma il turismo si è rivelato un Cavallo di Troia, e se da un lato incrementa la produzione, dall’altro accentua in maniera drammatica la disuguaglianza sociale. A Cuba non cedono le mura difensive, ma gli abitanti; assediati da oltre quarant’anni, stanchi e affamati, sono pronti a vendersi al miglior offerente, anche al nemico. Chi rischia di far cadere Cuba non sono gli Americani, ma gli stessi Cubani. I ragazzi cubani di oggi, che non vogliono di andare in America o in Europa, sognano di lavorare in un grande albergo, semplicemente per essere pagati in C.U.C. (pesos convertibles), unica alternativa all’arte del C.V.C. (“come vivere con la cuota”). Infatti con un salario medio di 250 pesos cubani (10 dollari), ci si può comprare solo 10 TropiKola. Certo tutti hanno un piatto di gongrì (riso e fagioli) la sera, e un tetto sotto il quale andare a buttarsi. Si sta meglio che negli anni Novanta, e nel 2005 i salari sono stati raddoppiati; mercato nero o meno, nessuno muore di fame, ma molti di invidia. Con l’apertura al turismo il desiderio di consumo sconvolge e rimescola le coscienze. Chi si lamenta di più sono i giovani che, come qualsiasi loro coetaneo di ogni parte del mondo, vorrebbero delle scarpe da baseball (il gioco nazionale a Cuba), un paio di orecchini d’oro e quattro soldi in tasca per invitare fuori una ragazza a mangiare una cosa qualsiasi diversa dal solito. Come Dayro, un ragazzetto di 17 anni che va alla Scuola di belle arti, fa caricature per i turisti nei bar del centro, e lavora come muratore tre giorni alla settimana. Suo padre vive in Texas da tre anni e manda i soldi a casa con Western Union: “Guadagna bene, fa la bella vita laggiú”, mi dice serio serio. Quando gli chiedo cosa voglia dire per lui vivere bene, mi parla di soldi, di macchine, di elettrodomestici. Nei suoi occhi risplende la luce del materialismo più ingenuo, e a guardarlo viene da chiedersi che ne è della cultura per il popolo, dei giovani “maestri volontari” e delle loro campagne di alfabetizzazione, insomma di quell’“Uomo nuovo” tanto sognato da Ernesto Che Guevara. 
Comunque mentre chiacchieriamo Dayro mi ha fatto un ritratto e io glielo compro. In fondo è giusto così. L’esperimento di vivere Cuba a lo cubano prima o poi finisce, la soluzione per lo straniero sprovveduto si trova sempre, e io torno a essere la turista che ero... E anche se sono rimasta squattrinata per un po’ e ho dovuto girare al largo dai luoghi canonici, forse non posso neanche immaginare, nel bene e nel male, cosa voglia dire veramente stare qui.

  • La parabola del turista - veduta (foto di Eloisa d'Orsi)
  • La parabola del turista - cartelli (foto di Eloisa d'Orsi)
  • La parabola del turista - mamma (foto di Eloisa d'Orsi)
  • La parabola del turista - panni (foto di Eloisa d'Orsi)