Per i miei taccuini uso da tempo i caratteristici album neri della Moleskine, la cui versatilità e praticità sono ben collaudate. Hanno un elastico per chiuderli, una grande tasca in terza di copertina, carta abbastanza pesante da reggere l’acquerello; il dorso rigido protegge il vostro lavoro e vi offre un appoggio per disegnare.
Ma al di là del tipo di album usato (fogli sciolti e poi rilegati, blocchi di carta da acquerello, quaderni ‘a fisarmonica’ o album cinesi) il taccuino è per me, come da etimo, il luogo dove l'atto creativo è registrato nel suo passare dalla potenza della percezione indistinta all'atto della sua rappresentazione.
Il taccuino è il mio modo di conoscere. Il Carnet di viaggio come svelamento del mondo, perché il viaggiare, con il suo rompere le abitudini, il suo scardinare le assuefazioni della vita ordinaria, comporta un rinnovarsi dello sguardo, un risveglio dalla letargia delle convenzioni che è riscoperta del mondo come tessitura di segni da interpretare e comprendere.
Come scriveva mirabilmente Baudelaire: “Nessuno è più adatto a gustare un paesaggio di colui che lo osserva per la prima volta, poiché la natura si presenta allora in tutta la sua estraneità, non ancora infiacchita da un troppo frequente sguardo”. Viaggiare con il taccuino disegnando, come faccio da anni, è il mio modo di risarcire il mondo – il creato – dall’usura dello sguardo “infiacchito”.
Il disegno e la pittura sono particolarmente adatti a cogliere questo rivelarsi del mondo e a penetrarne la stupefacente novità. Ma ciò è possibile solo quando l’anima si fonde con i fenomeni percepiti. Quando disegno un paesaggio, un bambù, divengo quel paesaggio, quel bambù.