Backpacker d'Asia

testo e foto di Massimo Morello

Un café - Guest house - centro di meditazione e massaggio - libreria a Pai, nel nord della Thailandia, uno dei nuovi punti di riferimento per gli hippy-mistici in cerca di energia. (reportage Backpacker d'Asia, foto di Alessandro Gandolfi)

«Happy, non hippy» dice Sung, un giovane thai professore di legge alla Thammasat University di Bangkok, mentre fa colazione al Coffee and More di Phra Athit Road assieme a un funzionario irlandese dell’Unicef. Quella via, che corre parallela al fiume Chao Praya, delimita il lato nord di Banglampoo, uno dei quartieri più antichi di Bangkok, dove vivevano gli artisti di corte. Sul finire degli anni Sessanta i suoi alloggi a basso costo accolsero gli sbandati sulle vie dell’Asia descritti nelle storie di viaggio di Pico Iyer in “C’era una volta l’Oriente”. Oggi è punto d’incontro e residenza dei backpacker, i viaggiatori indipendenti di tutto il mondo, scenario del romanzo di Alex Garland “The Beach”, e del film interpretato da Leonardo di Caprio che ne è stato tratto. Negli ultimi dieci anni, però, Banglampoo è divenuto di moda anche tra i giovani della borghesia thai e tra gli studenti della Thammasat e sembra tornato alla sua antica vocazione di quartiere artistico e bohème. Un cambiamento canonizzato da un recente articolo del “New York Times” con il titolo “Hippie Haven Goes Upscale”.

«Gli habituè di Banglampoo sono più hi-so» continua compiaciuto Sung, riferendosi al termine locale per alta società. Lui e i suoi amici si ritrovano qui al mattino presto, dopo essersi esercitati nella pratica del tai chi nel piccolo parco lungo il fiume.

Khao San Road, la via centrale di Banglampoo, che spesso si trasformava in terminale di viaggio ed esistenziale per molti hippy, mantiene il suo potere d’attrazione per i globetrotter a basso budget. I viaggiatori trovano ancora ostelli e guest house dove alloggiare per quattro dollari e banchetti di noodles e riso dove mangiare per uno. Ma sono sempre più numerosi gli alberghi che si definiscono boutique hotel, come il Buddy Lodge, che offre anche un servizio di personal trainer. Le vecchie corti oscure con edifici in stile sino-coloniale dove si incrociavano gli emuli di Timothy Leary, sono state ristrutturate e illuminate dalle insegne del True (caffetteria di una società hi-tech che propone muffin, sandwich italiani e connessioni internet veloci), il Nero (omonimo del ristorante ipertrendy sulla spiaggia di Kuta a Bali), il Tom Yum Kung Restaurant, dove la piccantissima zuppa thai è servita in versione adeguata ai delicati palati occidentali. Molti magazzini hanno ceduto il loro spazio a uno Starbucks, un McDonald’s, una pizzeria Scoozi, una libreria Bookazine, spesso conglomerati in piccoli mall lungo quello che era un soi, un vicolo trasversale, oggi rinominato con denominazioni come Sunset Street. Le bancarelle lungo la strada vendono ancora false tessere stampa e studentesche, e in qualche retrobottega si contrattano autentici passaporti rubati o ceduti da qualche disperato, ma l’articolo più di moda nell’ultima stagione sono i copribraccia con disegni di tatuaggi, dimostrazione dell’ironica intraprendenza dei thai di fronte alla mania dei giovani occidentali per la body art tribale. È cambiata anche la United Travellers Connection. Aperta dodici anni fa da un israeliano che si era messo in affari con un piccolo chiosco di falafel in Khao San, da punto di ritrovo per i suoi connazionali nel loro viaggio sabbatico post-militare, è divenuto uno degli snodi del nuovo turismo globale in Asia. Nel vicolo retrostante il Sori Vorabin Gym, una palestra di Muay Thai, la tradizionale boxe thailandese, è ormai un piccolo centro di specializzazione per chi progetta di insegnare arti marziali nelle catene di palestre occidentali.

Insomma: Banglampoo è un laboratorio antropologico della postmodernità, lo scenario delle nuove tribù di viaggiatori che si incrociano nell’Asia Orientale. Nel teatro geopolitico attuale, infatti, qui si combinano le opportunità e le condizioni più favorevoli. Sono tribù di etnie e culture diverse che si contaminano a vicenda, ritrovandosi in riti collettivi, che sia un full moon party in un’isola del golfo di Thailandia o un corso di massaggio nella scuola del Wat Phu di Bangkok, ma soprattutto nel modo di viaggiare. Si muovono lungo un circuito disegnato dalle indicazioni della “Lonely Planet” e organizzato dalle agenzie ad essi consacrate, che assicurano efficienti collegamenti da Bangkok a Kathmandu, da Saigon a Goa. In questo modo, però, restano intrappolati in un circuito che rende difficile qualunque modifica, un non-luogo che potrebbe trovarsi in un punto indeterminato dell’Asia.

Le differenze reali, in questa sorta di globally planet, sono comportamentali. Ci sono i post-hippy, categoria residuale della generazione che trent’anni fa s’incamminò sulle vie dell’Asia. Hanno poco o nulla dei loro padri o nonni, se non nell’abbigliamento o nella volontà di perdersi in un qualche altrove. Se ne incontrano soprattutto a Jochne, la via di Kathmandu più nota come Freak Street. La loro storia ricorda un po’ quella di “Flash”, il diario di Charles Duchassois, un francese che nel gennaio del 1970 partì da Marsiglia per Kathmandu: chissà dove, chissà cosa ha mandato in corto le loro sinapsi cerebrali. I neo hippy, invece, sono personaggi in cerca della spiaggia o della montagna perfetta, di un dio o di un rito che li aiuti a coordinare corpo e mente, di uno stile di vita codificato dai magazine d’ipertendenza. Sono i cacciatori dell’onda perfetta sulla spiaggia di Ulu Watu a Bali, i nostalgici orientalisti di Luang Prabang, in Laos, i romantici cercatori di rivoluzioni perdute in Vietnam, i tipi  “outdoorsy” che si avventurano in trekking nel nord del Vietnam e della Thailandia o si spingono sulle tracce di Jon Krakauer nell’“Aria sottile” del Nepal. I viaggiatori spirituali più puri si confondono ormai con gli shadu, i “folli di Dio” che animano le vie di Kathmandu, ma la maggioranza di loro interpreta la Via come un percorso stile Buddha Bar, tra lezioni di yoga, corsi di meditazione o respirazione. Tutti, in un modo o nell’altro, sono perennemente connessi via Internet, si procurano cash via bancomat, si tengono in contatto via sms con schede sim locali e si vestono secondo mode no-logo ma ugualmente codificate.

Col tempo alcuni di loro entrano a far parte di un’altra tribù, quella degli expat, coloro che si sono trasferiti all’estero per irrequietezza esistenziale, curiosità culturale, ricerca di un diverso stile di vita. Ci sono i cosiddetti Asian Old Hands, perlopiù ex giornalisti che bazzicano l’Asia dai tempi della guerra in Vietnam e dintorni. Li ritrovi ancora al Foreign Correspondent Club di Phnom Penh o nei bar della Sukhumvit road di Bangkok. E poi esperti d’arte, architetti, designer, stilisti, pierre, ristoratori, operatori finanziari in cerca di business da gestire in rete, che si muovono nel Sud-est asiatico come in quell’immenso parco giochi raccontato dal nippoamericano Karl T. Greenfeld in “Deviazioni standard. Su e giù per la nuova Asia”.

Per tutti, comunque, vale ancora quanto scritto da Bob Shacochis, giornalista americano che ha iniziato una vita così facendo surf in Sud America. “Se vuoi conoscere un uomo viaggia con lui. Se vuoi conoscere te stesso viaggia da solo. Se vuoi capire il tuo paese metti casa in un altro paese. Ma non in un paese del mondo occidentale. Fermati là dove nulla è familiare, dove la luce è surreale, gli odori sono quelli di spezie sconosciute e s’avvertono vibrazioni aliene. Diventa un expat, vittima di un autoesilio almeno per qualche anno. Immergiti in un altrove che rifletta un’immagine rovesciata di te stesso”.

È ciò che mi accade in questa guest house di Pai, un villaggio nel nord della Thailandia. Sino a una ventina d’anni fa a passare di qui erano solo pochi sbandati in cerca di droga e oggi è una delle località più alla moda e cosmopolite del Sud-est asiatico. Ma nel piccolo padiglione dove scrivo, disteso su una stuoia, il tempo non sembra trascorso.

 

Sempre connessi! (reportage Backpacker d'Asia, foto di Alessandro Gandolfi) Sempre connessi! (reportage Backpacker d'Asia, foto di Alessandro Gandolfi) Lonely Planet ovunque e per ovunque: negli anni '70 queste guide hanno creato una cultura del viaggio, ma oggi stanno cambiando, e soprattutto trasformano il mondo che descrivono. (reportage Backpacker d'Asia, foto di Alessandro Gandolfi) Bangkok, Khao San Road (reportage Backpacker d'Asia, foto di Alessandro Gandolfi)

 

 


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