Non sono io a cercare i viaggi, sono loro a cercare me; e lo stesso è accaduto per questo viaggio sulle orme di Don Chisciotte. Un personaggio che, fino ad allora, avevo frequentato poco, ma che a un certo punto ha cominciato a fare capolino insistentemente nella mia vita. Se aprivo un libro, o accendevo la televisione, o andavo a una mostra, sempre si parlava di lui e della Mancia. Alla fine ho sentito che dovevo partire, quasi rispondendo a un richiamo, e mi sono trovato così invischiato in uno strano viaggio alla ricerca di un personaggio letterario, e dunque per definizione inesistente, introvabile.
Se di Don Chisciotte si avverte la mancanza è perché il realismo, in sé utile e anzi necessario, si è fatto nel nostro tempo eccessivo, sino a sconfinare nel cinismo: gli scandali finanziari, l’ossessione per il denaro e la ricchezza facile, il trionfo dell’egoismo, le paure irrazionali verso chi è diverso, hanno ridotto al lumicino la nostra capacità di essere aperti, franchi e generosi come un cavaliere errante dei tempi andati. Ma se tutti sappiamo bene (a volte anche troppo) che di soli ideali non si vive, nemmeno si può vivere del tutto privi di ideali. E ogni volta che il disincanto supera il livello di guardia, bisogna tornare a cercare Don Chisciotte, con la sua purissima carica di di idealismo, e chiedergli di cavalcare ancora Ronzinante per le vie del mondo, scortato dal suo fido scudiero Sancio Panza.
Con questa idea in mente ho percorso in primavera le vie della Mancia insieme al pittore e filosofo Stefano Faravelli, tentando di raccapezzarmi nella Ruta del Quijote (l’itinerario di Don Chisciotte), lungo ben 2500 chilometri: un intrico di vie che vanno da tutte le parti e in nessun posto, e che sembra disegnato dallo stesso “Cavaliere dalla triste figura”, per tanto è smisurato e irrazionale.
Don Chisciotte l’ho cercato dapprima a Madrid, in Piazza di Spagna, dove sorge il più importante monumento a lui dedicato. Il cavaliere è colto nell’attimo in cui crede di vedere qualcosa all’orizzonte, forse dei mulini, che a lui però paiono giganti. Naturalmente Sancio non vede nulla, e avanza placido sul suo asino. Ma intorno al monumento, quasi a fare la guardia per impedirgli di fuggire, sorgono alcuni degli edifici più rappresentativi del franchismo, tra cui l’altissima Torre Madrid, creando uno strano contrasto tra lo spirito di libertà di Don Chisciotte e l’oppressione totalitaria. Di certo lo spirito di Don Chisciotte non soffia qui, anzi proprio in questo luogo si comprende l’invocazione di Miguel de Unamuno, che nella sua preziosa “Vita di Don Chisciotte e Sancio” (1905) chiamava alla santa crociata per liberare il sepolcro di Chisciotte dai custodi della ragione: preti, baccellieri e barbieri.
Don Chisciotte nemmeno posso dire d’averlo sentito presente tra i suoi mulini a vento, che a Consuegra sono assediati da villette a schiera invendute, indizio di un’euforia edilizia visibile ovunque in Spagna e che oggi il Paese sconta. E se Don Chisciotte tornasse in vita, probabilmente difenderebbe i mulini attaccando lancia in resta le villette, piuttosto che prendersela con loro... Forse non scamperebbero invece alla sua furia i mulini di Campo de Criptana, tirati a lucido per i turisti che sbarcano a centinaia dai bus. Meglio a Puerto Làpice, dove un piccolo gruppo di mulini è stato felicemente dimenticato in mezzo alla macchia mediterranea piegata dal vento che fa ruotare le grandi pale.
Ho sentito invece la presenza di Don Chisciotte nella bella cittadina di Toboso, dove tutto ricorda Dulcinea, la semplice popolana che solo l’amore del cavaliere poteva trasfigure in una nobilissima regina, come sempre l’amore dovrebbe fare, se è amore vero.
Don Chisciotte l’ho sentito altrettanto presente nella bella cittadina verde di Almagro, dove nel rinascimentale teatro all’aperto, il Corral de las Comedias, una compagnia di giovani attori itineranti provava “Romeo e Giulietta” di Shakespeare, con tutto l’entusiasmo (e l’approssimazione) di quell’età. E qualcosa di Don Chisciotte s’avvertiva anche nei grandi spazi verdi, poco conosciuti, che fanno da contorno all’arida Mancia, come le Tablas di Daimiel e le Lagune di Ruidera.
Alla fine Don Chisciotte l’ho trovato, o almeno così mi è parso, in un luogo misterioso, la Cueva de Montesinos, una profonda grotta sottoterranea dove si svolge uno degli episodi più intensi ed enigmatici del secondo libro del Chisciotte. Là Don Chisciotte vive per sempre circondato da una corte di cavalieri e dame sospesi tra la vita e la morte. E mi è parso sorpreso d’essere ricercato, di sentire che c’è ancora bisogno di lui, e che nessuno sente sorgere in sé, senz’altra ragione che lo spirito di giustizia, l’impulso a raddrizzare i torti e a restituire la libertà a chi ne è privo.
Forse quel giorno avrò sognato... ma di certo lungo la via, nei borghi e attraverso i campi infiniti della Mancia, ho ritrovato il piacere del viaggio povero e sconclusionato, e ho sentito mie le parole che un Sancio, reso più esperto da tutte le peripezie attraversate, confida alla moglie dopo il suo ritorno: “Non c’è al mondo cosa più piacevole per un uomo che l’esser l’onorato scudiero di un cavaliere errante che va in cerca di avventure ... Che bella cosa che è aspettare gli eventi attraversando monti, frugando selve, scalando picchi, visitando castelli, alloggiando in locande a volontà, senza pagare dico un solo quattrino, che il diavolo se lo porti”.