Testo di Guido Bosticco foto di Vince Cammarata
«Don’t forget us» (non dimenticateci), dice Stephen, seduto su un vecchio monitor da PC, davanti al suo negozio, lungo la ferrovia che fende a metà Kibera. Siamo in uno dei più grandi slum dell’Africa, a Nairobi. Negozio, qui, vuol dire quattro lamiere come pareti e due tele di sacco per terra, dove esporre la merce. Se ti va bene. E se il negozio è lungo la ferrovia, a Kibera significa che sei accalcato con altre centinaia di persone a cinquanta centimetri dai binari. Due treni al giorno per i pendolari, convogli merci a orari variabili e l’orribile vagone di rifiuti che fa sosta proprio davanti al negozio di Stephen e scarica badilate di immondizia giù dalla scarpata. Sotto, l’immensità dello slum, forse un milione di persone che vivono in condizioni tremende, qualcuno si è ricavato una nicchia di sopravvivenza in cui sta bene, ma certo il colera, l’inquinamento e il puzzo dei rifiuti non possono piacere a nessuno.
Stephen soffia la sua frase «Don’t forget us» al termine di un’intervista con una piccola troupe di “muzungu”, come vengono chiamati i bianchi. Stanno girando un documentario su “Ciak! Kibera”, un progetto artistico che vuole realizzare un cortometraggio con gli ex bambini di strada della baraccopoli. Una chance per vedere un po’ di luce, abbandonate le bottiglie di colla da sniffare, le risse con le bande avversarie, le notti piovose sotto le tettoie, il fango, i furti, l’accattonaggio e tutti gli espedienti della vita di strada.
A qualche centinaio di metri da qui c’è Ndugu Mdogo (Piccolo Fratello), un centro di recupero che raccoglie letteralmente dai bordi delle vie queste «piccole anime innocenti», secondo le parole del loro angelo custode Jack, a capo della struttura. Lui li va a stanare di notte, li convince, parla con le famiglie, li disintossica e inizia un lungo percorso che li aiuta a cambiare mentalità e sguardo sul mondo. Non è solo, Jack. Con lui c’è la grande macchina di Koinonia, condotta da Padre Kizito, una celebrità da queste parti, e c’è Amani, l’organizzazione che rende possibile tutto ciò in collegamento con l’Europa.
Un paese strano, il Kenya, indecifrabile come gran parte dell’Africa. Bisogna spogliarsi delle categorie di pensiero abituali ed essere pronti alla sorpresa. La sorpresa di salire su un matatu, gli autobus cittadini coloratissimi, e sentire musica dance a volume assordante mentre i passeggeri ballano, poi scendere per cambiare linea e stavolta trovare una predicatrice che spiega passi del Vangelo ai viaggiatori. La sorpresa del mercato mondiale del lusso, come quello degli orologi svizzeri, che si sposta dalla Cina e dalla Russia verso l’Africa, aumentando il volume d’affari da 13 milioni di dollari a 46 in dieci anni. La sorpresa, amara, di conoscere i bambini di strada, che già a sei anni hanno esperienze di vita violente e durissime; la sorpresa di una villa sontuosa in un anfratto dietro la baraccopoli. Raccontare questo pezzo di mondo è un’operazione delicata: ti sembra di capirlo, ma non è così. Per le vie di Kibera la troupe gira scortata, anche se sono più i sorrisi che gli sguardi torvi. Eppure il pericolo c’è, ma non lo vedi. Se sei un “muzungu” ti riconoscono anche dall’altra parte della città e sanno dove abiti. Ma proprio qui, nella pancia dello slum, ci sono i sogni, i talenti, la voglia di risalire la china, nonostante un governo disinteressato a cambiare le cose.
I ragazzi più grandi coinvolti nel progetto “Ciak! Kibera” vogliono fare i rapper, guardano all’America e dimenticano i suoni della loro città. Perciò si riparte da lì: registrare le voci dei mercati, il canto degli uccelli, i clacson dei matatu all’alba. Quella sarà la base della musica del cortometraggio. Sono curiosi questi giovani, soprattutto Farouk. Hussein Farouk Ali, nato a Kibera e vissuto sulla strada fino ai 13 anni. Pescato da Ndugu Mdogo, lascia la madre e le baracche per occuparsi di salvare se stesso, ma con l’idea di tornare da lei. Oggi ha 22 anni e vive nel quartiere di Kawangware con l’amico di sempre, Idris Abdul Ismail, stessa età e storia simile. Con lui gestisce uno studio di registrazione all’interno del Centro sociale Kivuli, sulla Kabiria Road, periferia ovest di Nairobi. Porta a casa qualche soldo anche per la madre con il nuovo lavoro. Sono due talenti straordinari del rap, Farouk e Idris. Sempre con il cellulare in mano, sembra che stiano su Whatsapp, invece buttano giù i testi delle loro canzoni in Sheng, uno slang fatto di inglese e swahili, la lingua parlata in mezza Africa. Rappano di una realtà brutale da cui emergere, hard work e challenge, lavoro duro e sfide da vincere, le parole d’ordine. Sono gli autori principali della colonna sonora di Bisu Ndoto, questo il titolo del cortometraggio. Bisu significa sogno in sardo, poiché la maggior parte degli artisti coinvolti fa parte di Cherimus, un’associazione di arte contemporanea che muove dall’isola italiana verso il mondo con progetti di interconnessione culturale, e Ndoto ne è la traduzione in swahili. I sogni sono appunto quelli dei bambini di strada più piccoli, che sono diventati autori, costumisti, scenografi e attori del cortometraggio, girato in “stop motion”, la tecnica che usa migliaia di fotografie in sequenza per dare l’idea del movimento. Una specie di magia, una trasfigurazione onirica dei racconti dei piccoli, colorata e sfavillante, sullo sfondo tragico delle baracche.
«Questi bambini un giorno saranno gli ambasciatori del Kenya», dice Jack, seduto su una montagna di rifiuti, a strapiombo sul “suo” slum. Migliaia di piccole anime innocenti che potranno cambiare il mondo. Almeno il loro.
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