Storie di frontiera
Tra strade di ghiaccio, indigeni e hippie nella tundra del più sperduto angolo del Canada
Testo e foto di Francesca Mazzoni da Azione
Gli occhi si perdono nel piatto paesaggio imbiancato della tundra. Il Mackenzie Bison Sanctuary è la riserva naturale con la più grande mandria libera di bisonti al mondo, ma nel mio caso è un buco nell’acqua (gelata). Pur avendo già percorso moltissimi chilometri, di questi bestioni neanche l’ombra. E allora meglio tornare indietro verso Yellowknife.
Il termometro segna dieci gradi sotto zero, decisamente troppi per me, eppure pochi; dicono sia un inverno caldo in modo anomalo, se pensiamo che nel 1947 la temperatura crollò fino a meno cinquantuno… Insomma né animali leggendari, né freddo estremo; devo scovare un’altra buona ragione per giustificare i quattro aerei e le infinite ore di volo per arrivare fin qui, nei Territori del Nord-Ovest, forse la più remota area del Canada. La sparuta segnaletica lascia un ristretto margine di scelta: nord o sud. Verso nord non ci sono strade normali, solo piste sul ghiaccio d’inverno (sempre più a rischio a causa del riscaldamento globale).
Appare all’improvviso una pompa di benzina che fa anche da caffetteria ed emporio per il piccolissimo villaggio di Behchoko. Ordino un hot dog da mangiare al volo e nel frattempo do uno sguardo agli scaffali: rossetti, mascara e smalti glitterati accanto a pellicce di volpe e topo muschiato. Sbircio anche nel banco del congelatore, ricolmo di gigantesche confezioni di carne vendute alla modica cifra di venti dollari canadesi ciascuna (circa quindici franchi). Vorrei scambiare due parole con il giovane commesso, un po’ incuriosito dalla mia presenza, ma è impossibile. Io vengo rapita dalla fame e lui da una signora sdentata con la sigaretta accesa tra le dita che reclama la sua spesa in tono concitato. Dopo un’oretta arrivo a Yellowknife, poi continuo verso nord.
«Dettah è un luogo dove i turisti potrebbero sentirsi a disagio» ammette senza mezzi termini la Lonely Planet. Ma per il momento ho preoccupazioni più immediate, per la precisione gli scricchiolii, qualcuno più acuto e altri quasi impercettibili, mentre le gomme del fuoristrada scivolano sulla superficie ghiacciata del Grande lago degli schiavi. In inverno il lago diventa una specie di autostrada dove le automobili sfrecciano accanto a slitte trainate da cani. È una distesa azzurra che brilla sotto il sole di marzo, senza cartelli stradali o corsie di marcia. Vige la legge della tundra e il buonsenso di frenare in caso di pernice, come recita l’adesivo sul retro del pick-up che mi precede. Per cinque chilometri si è sospesi su una quarantina di centimetri di ghiaccio, il minimo indispensabile per transitare in sicurezza, fin quando si comincia a intravedere uno sterrato di sabbia e sassi, poi le prime case del villaggio.
A Dettah vive una delle principali comunità indigene della baia di Yellowknife. Cammino tra casette in legno scrostate, targhe dipinte a mano e pelli d’animali appese a seccare su rastrelliere. C’è un bel viavai di persone che entrano nell’unico edificio in cemento. Mi avvicino senza dare nell’occhio, ma non faccio in tempo a sbirciare oltre la porta d’ingresso che m’imbatto in una signora anziana dagli occhi a mandorla, scuri e profondi. «Entra, sei benvenuta», dice porgendomi la mano. File di tavoli apparecchiati, un buffet lunghissimo, bambini che corrono qua e là, giovani e anziani gli uni accanto agli altri: forse una festa paesana. Gli adulti si alternano al microfono cantando o parlando in una lingua che ignoro, ogni tanto una rullata di tamburi per svegliare gli animi. La signora mi fa cenno di seguirla. Ha i capelli nerissimi raccolti in una morbida treccia con una spilla di perline colorate. «Piacere, Liza. Di dove sei?». Le spiego che sono italiana e resterò da queste parti per una decina di giorni. «Gli europei qui sono pochissimi» replica, mentre mi aiuta a togliere il giaccone. «Non c’è molto per divertirsi. Yellowknife è l’unica città di questa immensa provincia canadese. Non è un posto facile qui, ma c’è sempre quello spirito di frontiera, soprattutto nella zona di Old Town. Al posto di pionieri e minatori, in quelle baracche colorate ora ci sono giovani, artisti e gente strana, a metà tra un cowboy e un hippie».
Approfitto della sua gentilezza per togliermi qualche curiosità sulla vita in questi sperduti angoli del Canada, terra delle comunità indigene delle Prime nazioni, degli ingordi cercatori d’oro sulla strada per il Klondike e dei leggendari piloti dei bush plane, sfrontati avventurieri del cielo capaci di atterrare senza pista su qualsiasi terreno accidentato. «Siamo un po’ sopra le righe, fuori dai binari. Un campionario ben assortito» risponde mostrandomi alcune fotografie appese alle pareti. Ne indica una con una grigia torretta d’acciaio. «Yellowknife aveva una delle migliori miniere d’oro di tutta la nazione. Resta solo arsenico, tantissimo arsenico nel suolo, uno dei peggiori veleni al mondo», sottolinea con voce spezzata.
Cambio argomento e chiedo cosa stiano festeggiando. «Un membro della comunità ci ha lasciato la scorsa settimana. Condividiamo tutto, è l’unico modo per sopravvivere nella tundra» risponde con un sorriso ritrovato. L’atmosfera allegra mi ha portata fuori strada. «Il fratello del defunto ha cacciato e cucinato il caribù per tutti. Mangia con noi» mi dice indicando la sedia. Ho un attimo di smarrimento. Sono le 16.05 di un sabato qualsiasi e io mi trovo a sette fusi orari dall’Italia a una specie di commemorazione funebre davanti a un piatto di stufato di renna. Poi però penso a mia nonna Francesca, siciliana e contraria a qualsiasi no pronunciato dinanzi al sacro comando del cibo. E ovunque tu sia, certe regole non cambiano, alla frontiera come a casa.