La mia prima bicicletta
di Salvatore Capasso
Il mio papà aveva un emporio, vecchio di cent’anni, l’unico del paese, sul corso principale. L’interno era luminoso e ben arieggiato. Sul bancone di legno, che correva nel locale, piegandosi ad angolo retto in prossimità delle mura perimetrali, facevano bella mostra, in fila per tre, grosse bocce di vetro piene di dolciumi, insieme con cappelli e pentole, barattoli di latta e ferri da stiro. Sul retro, su mensole di pioppo, avvolti da fogli di carta di un azzurro color-cielo-d’inverno, lunghi maccheroni che sarebbero stati spezzati, e pesati su una vecchia bilancia. All’ingresso, bottiglie di vino rosso, marca Ferrari, contenute in casse di ferro, impilate una sull’altra, aspettavano di essere sistemate sugli scaffali.
Di vino il mio papà ne vendeva molto, tanto che la ditta che lo produceva gli regalò una bicicletta.
Quando arrivò, impacchettata a dovere, fu subito sistemata nel deposito.
Quel giorno, chissà perché, non mi fermai a giocare con i compagni di scuola ma filai dritto a casa, e come sempre passai per il negozio di mio padre.
Presi delle caramelle, gironzolai tra scatole di cartone, botti di marsala e cocci di pittura e mi avviai verso il deposito per accarezzare Sisinella, il mio gatto di cinque anni.
Scorsi, in un angolo, appoggiato al muro, tra file di vetri di varie dimensioni, un grosso cartoccio legato con dello spago. Intuiì, dalla grossa sella sporgente, che era una bicicletta.
Con calma sciolsi i nodi, tolsi l’involucro di cartone corrugato, e comparve una bicicletta tutta rossa. Era una bici da donna, tutta curve, con un grande fanale anteriore e due larghi parafanghi, anch’essi di colore rosso rubino. La sella di cuoio, larga e morbida, era di dimensioni spropositate rispetto al manubrio di ferro, provvisto di due grosse manopole di osso. Il campanello mandava un suono simile a quello dei campanacci delle mucche. La coppia di pedali, di gomma nera, con catarifrangenti di un giallo intenso, era sistemata sul piccolo portapacchi posteriore.
Montai subito i pedali, avvitandoli alla buona, e mi avviai verso l’uscita del negozio pensando che potessi subito provarla. Il mio papà mi fermò proprio sull’uscio dicendomi che la bicicletta era un regalo per mia madre, tant’è che nella scelta l’aveva ordinata da donna. Grande fu la mia delusione e non valsero a nulla le carezze materne, benché avessi già avuto il permesso di fare un giro nel paese.
Col tempo, poi, mia madre smise di usarla, perché nel frattempo nacque mia sorella, e la “rossa”, così l’avevo soprannominata, divenne la mia bicicletta che mi accompagnò, per polverose strade di campagna e campi di fieno tagliato di fresco, alla scoperta di fossi e di stagni, dove mi divertivo a catturare granchi e gamberetti che, puntualmente, a casa mia madre gettava via dal balcone.
Oggi quella bicicletta giace come un ferro arrugginito nella cantina e ogni volta che la guardo mi rivedo bambino mentre pedalo a rotta di collo. Ma è solo un malinconico esercizio di memoria: le strade sono ormai asfaltate, i fossi cementificati, gli stagni interrati, i granchi e i gamberi avvelenati dai pesticidi...
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