Il museo dell'innocenza
Gli oggetti quotidiani raccontano le nostre vite
testo e disegni di Stefano Faravelli
Di passaggio a Istanbul, sotto un cielo uggioso da capitale del nord, mi sono subito incamminato per Beyoğlu, in cerca di una vecchia casa nel quartiere di Çukurcuma, una palazzina di tre piani color rosso scuro, all’angolo fra Çukurcuma Caddesi e Dalgiç Sokak. Tra un hammam e il consolato italiano è acquattata la Macchina del tempo. È il Museo dell’Innocenza, dal titolo di un libro del suo creatore, lo scrittore Orhan Pamuk (Premio Nobel per la Letteratura nel 2006).
Questo museo è – credo – la più perfetta tra le sue opere. Luogo fisico e al contempo totalmente letterario, racchiude la vita di personaggi romanzeschi dando loro consistenza ed evocando, nella magica ostensione di 1.100 oggetti, frammenti e ricordi della loro esistenza. Queste struggenti reliquie sono disposte con grande armonia all’interno di 83 bacheche, tante quanti sono i capitoli del libro. Luci, suoni (uno sciacquone rotto, il refrain di una melodia, voci lontane…), frammenti di film, accompagnano il visitatore in un percorso avvolgente che segue un andamento a spirale: la Spirale del tempo disegnata come in un film di Hitchcock sul pavimento dell’ingresso. L’ultimo piano di questa “ascensione regressiva” è la stanza di un bambino...
Si può visitare il museo anche senza aver letto il libro; si può ignorare tutto degli amori contrastati di Fusun e Kemal, che ne sono i protagonisti; si può tradire la volontà dell’autore che lo ha progettato plasmando la realtà con la sua immaginazione. Allora, astraendo dal piano puramente letterario, sarà la voce della città a farsi ascoltare. Visiteremo il Museo dell’Innocenza come lo scrigno di una Istanbul appena svaporata (mi vengono in mente i bei versi di Kavafis: “Come pronto da tempo e coraggioso, salutala, Alessandria che scompare”).
Sono i soprammobili kitsch e i bibelot che ingombravano le stanze di una borghesia irretita dalla modernità, ma ancora memore di retaggi ottomani. Le fotografie in bianco e nero delle gite fuoriporta, le bottiglie di Meltem (la prima bibita gassata turca), i vestiti che le sarte di Istanbul confezionavano ispirandosi ai fasti monegaschi di Grace Kelly... Oggetti salvati dal “massacro”, come Pamuk definisce la furiosa tabula rasa del passato recente avvenuta tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Novecento; oggetti fragilissimi, perché da troppo poco tempo fuori corso e privi di quella rilevanza emblematica o artistica che li consacrerebbe alla Storia con la esse maiuscola, quella dei musei senza innocenza.
La loro voce flebile ci racconta di esistenze che hanno attraversato la città sul Bosforo nel secolo scorso, delle case che hanno impregnato con la loro presenza, delle vie, delle piazze, dei quartieri. E quando usciremo dalla palazzina rossa dove il tempo si è fermato, avremo occhi nuovi per capire i palazzi delabrès che si affacciano su Tophane Kaddesi, gli scampoli liberty di una Istanbul levantina (come quel cancello del D’Aronco a Galata), le targhe anni Cinquanta dei condomini che presto verranno abbattuti per far posto a nuovi grattacieli...
A un livello più filosofico il Museo dell’Innocenza ci predispone all’ascolto del pianto delle cose(“lacrimae rerum”, in Virgilio). Toccati nel profondo, questi oggetti cesseranno di essere cose-fuori-di-noi (ob-jecta) per essere infine riconosciuti come prolungamenti di noi stessi, costitutivi del luogo originario della nostra esperienza dello spazio (che è appunto luogo, ossia spazio abitato, qualità non quantità), dimora dell’anima e per l’anima.
Io sono in quelle fotografie color seppia, io sono quella bambola smemorata (“Di te soltanto, anima della bambola, non si poté mai dire dove fossi veramente” scrive Rilke). Io sono quel cuore di porcellana spezzato che giustamente Pamuk ha trasformato nel simbolo della fede nella magia degli oggetti.
Nei miei viaggi ho sentito più volte la chiamata di queste “lacrime delle cose”. L’ho sentita sconvolgente a Hiroshima davanti agli orologi fermi alle 8,15 del Museo della Bomba, l’ho sentito disperato allo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, davanti all’orsetto col fiocco blu. Ma piangevano anche le valige di carte in cui rovistavo ad Alessandria, le pagine dei registri naufragati nel bazar di Chengdu, le fotografie degli ebrei di Cochin, le lettere scritte con calligrafia infantile raccolte nelle vie di Bamako. E le mille carte e cartoline raccolte nei bazar e nei mercatini, dai rigattieri e sulle bancarelle di mezzo mondo.
Molte di queste reliquie sono racchiuse tra le pagine dei miei carnet, in attesa di far udire anche ad altri il loro pianto struggente; come le “parole congelate” di cui scrive Rabelais che, scaldate dal tepore delle mani di Pantagruel, tornano a risuonare.