Il Laos è ancora ampiamente nell'era delle due ruote. Le strade sono invase da scooter e da tantissime biciclette, indispensabili per spostarsi in città. Solo per i turisti sono disponibili dei pulmini privati. Così, vista la totale assenza di ferrovia, gli unici mezzi di trasporto per i locali (e per i viaggiatori alternativi) sono le corriere statali.
L'autostazione di Vientiane, la capitale del Laos, è fuori dal centro, gli orari sono scritti col gesso su pesanti lavagne di ardesia e l’odore di aglio fritto avvolge l’aria già di mattina presto; ma il caffè laotiano è profumato e dolcemente amaro.
Il trasporto pubblico in Laos è un affare molto serio. Gli autobus, quasi tutti vecchi Hyundai,sono puliti, variopinti e soprattutto molto efficienti, se teniamo conto che vengono continuamente messi alla prova su strade impossibili. Assomigliano un po' ai magic bus degli anni Settanta: si viaggia con i finestrini aperti, i capelli al vento e la musica a tutto volume.
Alla partenza il pullman è già al completo in ogni ordine di posti, bagagli sul tetto compresi. Imparo però presto la prima regola del viaggio e cioè che nessuno viene lasciato a terra.
Ad ogni fermata si ripete la stessa scena: io che siedo davanti apro la porta mentre l’aspirante passeggero, realizzando che il bus è strapieno, ci guarda con aria supplichevole. L'autista pare volerci dire “Non posso lasciarlo qui, il prossimo passerà fra diverse ore..." e quindi lo fa salire con un sorriso, mentre l’ennesimo scatolone-bagaglio vola sul tetto. Ho capito di trovarmi in un Paese speciale quando non c'era più posto nemmeno per un uccellino e una ragazza si è appollaiata elegantemente sul sedile di guida con il conducente.
Stretti stretti avanziamo per qualche ora su strade sterrate, finché a un tratto ci fermiamo in mezzo a un bosco fitto. Come rispondendo a un comando segreto, tutti scendono ordinatamente e si dileguano silenziosi nella selva. Senza sapere bene che fare, seguo le nostre vicine di posto fino a quando capisco con imbarazzo di essere fuori luogo. Infatti questa è una “sosta pipì”, gli uomini da una parte e le donne dall’altra.
La rete di trasporti laotiana passa con disinvoltura dalla terra all’acqua. Dopo Luang Prabang il fiume Mekong (qui chiamato Khong, “la madre delle acque”) scorre verso sud con un corso largo e più facile, specie nella stagione delle piogge, che gli permette di integrare perfettamente il sistema dei trasporti. Il fiume, che nasce in Tibet per sfociare nei pressi di Saigon, appare possente e impassibile, dalla superficie grigio-verde compatta con un grado di trasparenza pari a zero; è del resto parecchio inquinato.
Qui fanno servizio tante imbarcazioni di legno, la forma allungata e stretta come la fusoliera di un aereo, gli interni in mogano e le tendine parasole color senape che di certo hanno visto tempi migliori.
Dalla capitale imperiale Luang Prabang a Pak Beng un giorno di navigazione costa solo 10 euro. A bordo saremo una ventina. Si sta scalzi, i bagagli ammucchiati a prua, le bici di due ciclisti spagnoli legate sul tetto. I tre membri dell'equipaggio, poco più che adolescenti, non mi infondono fiducia, li scambio per ragazzini che giocano col timone. Invece ci guidano tra rapide, mulinelli e strettoie con un’andatura lenta e sicura, attraverso uno scenario naturale prorompente: foresta vergine, verde e poi ancora verde, ossessivo e vivo, cosi fitto che sembra impenetrabile. Ogni tanto sulla riva appare un piccolo orto, segno di un villaggio nelle vicinanze. Allora accostiamo per sbarcare qualche passeggero con i suoi mille fagotti colorati e ogni volta dal bosco sbuca di sorpresa una masnada di bambini che come i tigrotti diMompracem si lanciano in un festoso arrembaggio.
Vagabondando lentamente arriviamo a Muang Sing, cittadina di frontiera nel nord-ovest del paese nota come vertice laotiano del "triangolo d'oro". Da queste parti l'oppio è coltivato come la vite nelle Langhe; dopo il raccolto viene esportato dai trafficanti di mezzo mondo mentre il piccolo smercio locale è appannaggio delle anziane donne di etnia Akha. Vestite in abiti tradizionali, la pelle scurissima, le mani ossute e forti, si avvicinano per vendere braccialetti colorati. Non parlano una parola d'inglese ma si fanno capire benissimo e dopo rapidi convenevoli vanno subito al sodo: ganja? opium?
In un villaggio, sorpreso da un diluvio, mi sono riparato sotto la tettoia di una capanna di legno. Ero lì incantato ad ammirare lo spettacolo della pioggia furiosa quando alle mie spalle si è aperta una porta e una mano furtiva ha lasciato una sedia. Quando ha smesso di piovere ho bussato per restituire la sedia e ho trovato cinque sorrisi che mi hanno accolto in casa per un caffè senza parole.
Dopo due settimane giocate tra corriere d'altri tempi e piroghe uscite dai libri di Salgari, il Laos svanisce all’improvviso, in dissolvenza e senza titoli di coda. La fine del viaggio mi piomba addosso sul filo della frontiera thailandese, a bordo del moderno shuttle con aria condizionata che veloce attraversa il nuovissimo ponte sul Mekong, guidato da un’autista thai in uniforme super-gallonata.