La mia prima volta, in aereo
di Stefania Zerbato
La prima volta che ho volato ho espatriato. Mai cose semplici, partenza col botto.
E un po’ lo è stato a riprendere la reazione di mia madre: ha strabuzzato gli occhi quando le dissi: “Vado in Tunisia!”.
Io orgogliosa e sfidante – avevo già combinato biglietto e passaporto -, lei tanto sorpresa quanto contrariata.
Avevo diciannove anni e abitavo con i miei. Quasi quarant’anni fa. Quindi, nulla di cui stupirsi.
Oggi, quasi scandalizzata, mi riprenderebbe così: “Ma? Hai passato tutta l’estate a casa? Come mai non sei in giro?”
Quanto mi piacerebbe sentirglielo dire.
Quell’anno sbarcai a Tunisi con Arianna, una compagna di università. Non avevamo una grande amicizia, ci univa però il desiderio di scavallare i consueti panorami e scardinare l’orizzonte quotidiano.
In agenzia – che mica c’era Internet! - un simpatico fricchettone dell’epoca ci ingolosì con dépliant sfavillanti: foto di oasi e souk, spiagge bianche con palme e aitanti boys, cibi insoliti e invitanti – la bufala più eclatante! – palazzi arabeggianti ornati di vibranti mosaici accanto a minareti e moschee candide come la luce.
Tra le attrazioni, l’immancabile tour nel deserto a dorso di dromedario e le dimore di terra rossa mimetizzate tra le montagne e presidiate da donne di nero vestite da capo a piedi.
Percepivo l’odore delle coloratissime spezie solo puntando gli occhi bramosi sulle foto pattinate. Doveva essere l’effetto allucinogeno che esalava dall’asfittico catalogo a ogni giro di pagina.
Una settimana di viaggio organizzato con un gruppo di quindici persone. Molto esotico: allora; non lontanissimo: quattro ore di volo; prezzo accogliente: per le mie tasche di giovane viaggiatrice che guadagnava lavorando nella pasticceria di famiglia.
Quella prima volta, mi torna qui ora, davanti al gate B6 del mio volo per Palermo. Destinazione finale Marsala: summer school della Scuola del Viaggio, a vent’anni dalla sua nascita.
Bel programma, gente figa, prof. con radici nella formazione universitaria e nella narrazione dell’arte di lasciar casa per conoscere l’altrove e il diverso, staff capace di gestire donne e uomini più o meno esigenti e desiderosi di sparare fuori i bestseller ansiosamente trattenuti in canna.
Del gruppo della Tunisia ricordo un paio di ragazze vicentine, grassocce e costantemente pronte alla risata contagiosa. Sorelle forse. Una delle due lavorava in un mini-market e lamentandosi del caldo umido che ci accolse in terra straniera quel lontano agosto, rimpiangeva le sue ripetute incursioni nelle celle frigorifere.
Poi ci rideva sopra e spalancava gli occhi sempre pieni di meraviglia.
C’era anche una famigliola – genitori con figlia adolescente – sempre della provincia dei magna gati.
Lui direttore di banca, molto preparato (pensavo io) data la quantità di domande puntuali che volgeva alla nostra guida: un tunisino che ce la raccontava in italiano e faceva di tutto per offrire una visione edulcorata e moderna del suo paese, e non esultava alle provocazioni del bancario, anzi nicchiava.
Lei, casalinga, indefessa parlatrice totalmente priva del tasto pausa.
Ripesco tra i ricordi un paio di fatti, corredabili di foto se solo mi decidessi a trasformare in jpeg le migliaia di diapositive che giacciono mute negli scatoloni in cantina.
Gli stessi scatoloni che custodiscono anche i miei diari di viaggio: annotavo sempre dove ero e quel che facevo, quel che mangiavo, chi conoscevo, baciavo, bramavo. Quanta vita pullula là sotto!
Compresa la sventura che capitò a Arianna.
Si prese il cagotto!
L’acqua del rubinetto, il ghiaccio e la verdura cruda erano nemici dichiarati del nostro stomaco: ma lei lo scoprì tardi.
Le venne la febbre a 41 e rimase a letto due giorni. Vinse due punture extra large di non so ché somministrate dal medico dell’hotel, poi tornò in sesto.
Io rimasi felicemente indenne da malanni e incidenti, nonostante qualche scorribanda non autorizzata me la sia presa in carico.
Capitò quando l'Arianna tornò in piedi, ammaccata e ottimista. La convinsi a farci un giro senza il gruppo, dopo cena.
Mi assecondò controvoglia, e non se ne pentì, subito. Piuttosto il mattino dopo, quando la guida ci riprese ammettendo che il suo paese poteva riservare anche spiacevoli sorprese alle giovani straniere ed era quindi preferibile evitare l’intraprendenza notturna in solitaria.
Per noi, fu una scoperta.
Bastò allontanarci di qualche centinaio di metri dall’hotel per incontrare strade e vicoli non asfaltati, polverosi e punteggiati di blatte, sporchi e malamente invitanti.
Un paio di intraprendenti local boy a cavallo del motorino ci si appiccicarono senza invito.
Belli, sexy a dirla tutta, soprattutto quello che toccò a me: Tophy.
E la serata cambiò marcia.
Parlavano italiano quel tanto che serviva, sorridevano compiaciuti, lineamenti aggraziati e pelle ambrata. La nostra età o giù di lì. Voglia di andare dall’atra parte del mondo e felici di farlo – tanto per iniziare – intrattenendosi con noi: ragazze moderne che viaggiavano da sole. Incredibile, ai loro occhi.
La sorella di Tophy si sposava il giorno dopo, e lui si fece insistente nel volerci ospiti a casa della famiglia, farci conoscere le loro usanze e la sposa. L’altro era il cugino e si unì al coro.
Eravamo vicini, incalzano loro; non ci fidavamo, tiravamo indietro noi.
Passo dopo passo, parole all’aria e divertenti schermaglie, finimmo davanti alla casa dove si teneva la cerimonia dell’hennè in onore dell’ultima notte di nubilato della sposa.
E questo lo imparammo entrando e scoprendo che era tutto vero quel che Tophy prometteva.
C’erano la sorella, la madre e una schiera di donne: alcune si occupavano della sposa, altre preparavano il cibo e impastavano dolcetti.
Finimmo anche noi accudite dal regno femminile, senza capirci niente.
Mani e avambracci, le nostre, si riempirono di fitte ragnatele ed eleganti ricami scuri. La magia dell’hennè si fece pelle sulla pelle. Assaggiammo dolcissimi biscotti alle mandorle e pasta filo, caramellosi datteri con le noci e, l’immancabile, tè alla menta. Tophy e il cugino osservavano contemplativi quel che le donne compivano su di noi, e la nostra sincera sorpresa.
Poi, dietro le nostre orecchie, in quel sottile incavo che sfiora il lobo e scivola verso la nuca, i due ragazzi infilarono un rametto di gelsomino, esageratamente melenso per i miei gusti, ma andava tenuto lì – ci dissero – a compimento del rituale.
Ora so che quello era turismo esperienziale: gli host locali ci hanno condotti in un’esperienza immersiva legata alle tradizioni e calata nella realtà.
Abbiamo portato a casa i tatuaggi di hennè impressi su di noi, i sapori e i profumi della tavola delle feste, la partecipazione alla cerimonia di preparazione al matrimonio: l’evento più importante nella vita di una donna, secondo le comari tunisine.
Era notte quando ci riaccompagnarono all’hotel, con educata gentilezza e bramosi di rivederci il giorno dopo.
E lì per lì l’avevamo promesso, ma poi non se ne fece nulla. Il predicozzo della guida e l’organizzazione ferrea delle nostre tappe ci portarono altrove.
Scusami Tophy!
Il tuo bacio però è rimasto negli annali: di sicuro l’ho smontato e trasformato ripetute volte, influenzato da ricordi e atmosfere. L’ho rivissuto sulle labbra, nella saliva che inumidiva le lingue, negli occhi liquidi che lambivano il desiderio, nel turgore che poggiava sul mio basso ventre.
Per una cronaca meno appannata dovrei rileggere le righe del diario in cui, quel bacio, l’ho descritto la prima volta, ma a che servirebbe? Sono le emozioni che sostengono i ricordi e se chiudo gli occhi ancora vedo i suoi.“Imbarco aperto per il volo UK235 destinazione Palermo. I passeggeri sono pregati di recarsi al gate con la carta d’imbarco: fila priority a destra.”
L’annuncio dello steward irrompe il flusso e mi riporta al gate B6: la mia partenza è prossima, un’altra occasione per generare ricordi e riempire nuovi diari.