La via inesistente
di Luca Fratton
Attraversare un fiume
Ci ritrovammo sulla riva barbuta di un torrente. Un piccolo torrente della Val Daone, mite e generoso, in cui affioravano i radi massi levigati.
“Guadiamo”, incitai Matteo.
“No, dai.”
“Ci togliamo le scarpe.”
“Non ho voglia.”
“Cosa? Siamo venuti fin qui.”
“Vai tu.”
“Sei un pollo”, gli dissi togliendomi le scarpe.
Rise.
L’erba era fresca e umida, un balsamo per i piedi.
“Pollo!”
Arrabbiato per una piccola felicità che non aveva chiesto, si tolse le scarpe in fretta ficcandoci dentro i calzini. Si sporse dalla riva e infilò un piede nel flusso. L’acqua era gelida. Lo seguii e calcolando ogni passo attraversammo la corrente, pigiando i piedi sui ciottoli. Una volta arrivati dall’altra parte ci sedemmo sulla pietraia ad asciugarci.
“Grazie che mi hai portato qui”, gli dissi.
“Non ti potevo più vedere chiuso in casa.”
“Non ce la faccio a uscire.”
“Ce la fai. Ce la fanno tutti.”
Presi due bottiglie di birra dallo zaino.
“Secondo te di cosa siamo fatti noi?”, gli chiesi.
“Di cosa vuoi che siamo fatti, delle cazzate dei nostri genitori.”
“Voglio dire, perché siamo cambiati così tanto?”
“Te l’ho mai detto, che tu ci pensi troppo?”
“A cosa?”
“A quello che hai lasciato là, in quel tempo là.”
“Lo so.”
“Quando cresci è normale cambiare interessi, anche noi non ci vediamo più come una volta.”
“Lo pensavo anch’io.”
“No, tu sei sempre stato così, tu eri quello che pensava a tutti.”
“Mi dispiace che ho perso quello slancio.”
“Credo sia un po’ colpa nostra anche.”
“Intendi anche un po’ colpa tua?”
“Mi sembra surreale perfino che io sia arrivato ad avere questa conversazione.”
“Hai ragione.”
“Mannaggia a te.”
“Perché?”
“Perché mi ci hai rifatto pensare.”
“A cosa?”
“A quel tempo là.”
“So che tu capisci.”
“Dio mio, quante fighe.”
“Ah ah!”
“L’ultima route che ho fatto da scout, me la ricordo come se fosse ieri.”
Poggiammo le bottiglie di birra vuote a terra, una vicino all’altra.
“L’avevamo fatta nelle Marche. Facevamo servizio in un riformatorio femminile da qualche parte nell’entroterra. C’era questa ragazza che mi aveva passato una cuffietta del lettore CD attraverso la porta della sua stanza. Fu lei a farmi conoscere la canzone dei Marlene.”
“Quella è bellissima.”
“E poi mi ricordo le colline, così selvatiche, non c’era nessuno, era natura incontaminata. Andavamo per due, tre giorni di fila.”
“Saranno dieci anni fa? Chissà come sarà cambiato tutto adesso.”
“Fa un po’ il conto, avevamo diciotto anni. Mi è sempre dispiaciuto che non hai mai fatto scout.”
“Non sarebbe stato per me.”
“Conoscevi un botto di gente.”
“Ne bevi un’altra?”
“No basta, domani ho turno lungo.”
Tornammo alla macchina e Matteo inserì il CD dei Marlene Kuntz e Skin ci metteva la pelle d’oca con la sua voce che si infilava in ogni crepa dell’anima. Stavamo zitti ad ascoltare La canzone che scrivo per te ed io sentivo che era una canzone che conoscevo da anni, ma avevo sempre sbagliato la persona a cui dedicarla.
Mi manchi, luogo che non conosco
Incredibile quanto una piccola immagine, capitata come un sasso che si infila in una scarpa, possa attecchire dentro di noi. Non avemmo più occasione di attraversare un fiume insieme, io e Matteo. Ma conservai a lungo quelle poche parole che avevano aperto uno scenario mentale su un luogo tanto vicino eppure così sconosciuto. Le colline selvatiche dell’entroterra marchigiano. Lasciai così quelle parole, parole e spighe, colore di terra bruciata, nel cassetto riparato e consumato che ognuno di noi protegge dentro di sé. Avevo paura che scappassero e invece, un giorno, uscirono da sole.
La mattina della partenza mi svegliai dal sogno di un cane impazzito che mi mordeva la gola, sotto il mento a sinistra. Postumi degli ultimi tre mesi. Quel cane era la forma che aveva preso il mio zaino interiore. Una bocca che si ribella, che attacca. Viaggiamo tutti con un peso più o meno grande che non sappiamo deciderci a mollare. Qualcosa, o qualcuno, a cui vogliamo inesplicabilmente bene, fino alla fine dei nostri giorni, ma con cui non possiamo stare.
Nell’automatico susseguirsi di treni e persone, deposi lo zaino addosso all’ultima colonna della banchina, volevo essere il primo a respirare l’aria cotta sbuffata dal treno. E poi sui binari scivolare, da nord a sud, Verona, Bologna, Ascoli.
Lo zaino che portavo era pesante, gli spallacci macinavano la pelle sulle spalle e non avevo ancora iniziato il cammino. Uscii in piazza Medaglie stando attento a non accartocciarmi sotto quel peso, nuotavo in uno stagno di cui non conoscevo il fondo. Venni catturato dal flusso antropico, risucchiato sotto i portici. Cercavo un volto amico, un’indicazione. Forse cercavo una mamma o un papà a cui chiedere cosa fare ma non ne trovavo. Sentivo le braccia formicolare, la maglietta spalmata sulla schiena. Posso dire che provai paura. Posso permettermelo. All’istante realizzai che lo zaino era troppo pesante: dovevo camminare per tre settimane dormendo in tenda senza sapere bene dove e vicino a chi, senza essermi preparato fisicamente ad un cammino di duecento chilometri, senza un navigatore satellitare e per la maggior parte del giorno senza telefono. Ancora di più però, mi terrorizzava l’idea di voler rinunciare ancora prima di affrontare una tappa.
Rimasi immobile per una decina di secondi. Da lì in avanti il tempo iniziò ad acquisire una consistenza strana, molle. Poteva espandersi o restringersi in modi che non avevo mai conosciuto prima. I colori s’erano fatti più vividi, i rumori più penetranti.
Cercavo una direzione a tentoni imitando la massa di persone indaffarate come un cucciolo. Iniziai a camminare così, per esclusione, senza sapere dove dirigermi. Eppure mi sembrò, per la prima volta, di aver fatto un passo in avanti.
Guardavo Bologna specchiarsi nelle facce delle persone, nelle loro scarpe sui marmi, e cercavo alture. Le ho cercate sempre, ogni volta che annegavo nel ristagno della pianura. Puntai la scalinata della Montagnola, con i suoi platani ariosi sopra i parapetti; dopo i primi scalini i muscoli delle gambe iniziarono a bruciare, e reggere lo zaino era come trasportare un corpo morto, al cui peso si aggiungeva il pensiero dei quindici chilometri dell’indomani.
Scaricai il bagaglio su una panchina e il petto si gonfiò d’aria. Il frinire delle cicale martellava nelle orecchie e nel vento, tra l’erba, sopra la mia testa e riempiva Bologna. Era solo estate ed erano solo cicale. A poco a poco riacquistai il senso di presenza e ripresi fiato. Comparve in quel momento, sulla panchina accanto, una signora anziana nel suo vestito di cotone leggero; dormiva rannicchiata come una bambina con il suo chignon bianco, e le voci delle ragazze con i loro vestiti turchesi, adagiate sul prato in morbide curve come tempera sulle tavolozze dei pittori, colorate di sole. Chiusi gli occhi e soffocai il traffico.
Mi ero portato un libro, scelta che avrei imparato essere molto discutibile quando il bagaglio deve essere portato addosso, ma in quel periodo ero in fissa con le poesie di Whitman. “La Vita immensa in passione, impulso, potenza, piena di gioia, per le azioni più libere che si compiono sotto la legge divina, l’Uomo Moderno io canto”. E non avrei potuto descrivere in altro modo il motivo per cui partii. Più mi avvicinavo al luogo in cui ero diretto e più il mio corpo sapeva.
“Adesso ci sono.” mi dissi.
Ero nel mondo. Quanto mi sentivo vulnerabile. Ero un fiore del campo, una bolla sottilissima tra le forze della vita. La paura che avevo provato fino a quel momento si trasformò e non avevo più dubbi che avrei trovato qualcosa, qualcosa di tangibile, lo diedi per certo, ne avevo l’assoluta sicurezza, anche se ancora non sapevo cosa fosse, né dove fosse, né quando.