La principessa etiope

di Raffaella Risolo

Possedevo tre Cinquecento: una bianca, una rossa e una grigio sabbia.

D’estate, quasi ogni sera, si andava a ballare alla “Conchiglia” a Balestrade che qui a Salemi, come adesso, non c’è niente da fare per i giovani.

Di lì uscivamo alle cinque e quarantacinque e andavamo sempre a Scopello. Alle sette in punto la zia Angelina sfornava il pane cunzato con l’olio, l’aglio e il pomodoro.

Facevamo il bagno al mare, che lì è bellissimo. Oggi però non ci si può più andare a Scopello. C’è troppo turismo, tutti ammassati, tutto finto.

E poi adesso non ce la faccio, troppi ricordi.

Io, dopo il bagno, andavo a riposare sotto un albero di fico. Stavo steso su una cutunnina che – come te lo spiego? – è come… come una coperta grossa. Tipo un plaid, insomma.

Poi si faceva di nuovo il bagno, si mangiava e si tornava a Salemi, che a Scopello dopo pranzo faceva troppo caldo.

Un pomeriggio, mentre ero sulla via del ritorno, vedo che aspetta alla fermata del bus una ragazza tutta scura, una bellezza etiope, con i capelli che arrivavano a metà schiena, un vestito a fiori grandi rossi e bianchi lungo fino alle caviglie e le spalle scoperte, che si giravano tutti a guardarla.

Subito io scendo dalla Cinquecento – quella bianca, credo che fosse – e vado verso di lei, ma come sto per aprire bocca lei mi blocca.

Mi dice: “È inutile che ti avvicini che niente ce ne esce”.

Allora io le rispondo: “Se ti avessi incontrato alla Conchiglia ti avrei chiesto di ballare e così ti avrei conosciuto. Ma ora, alla fermata, come si fa?”

E non mi guardare come sono ora, con la pancia a doppio che mi stringe la maglietta e il doppio mento che penzola, che prima ero proprio un bel ragazzo.

Nel frattempo arriva il bus. E allora lo sai che mi invento?

Salgo sul bus pure io e faccio la strada assieme a lei. Fino a casa sua. E quando scende la prendo pure sotto braccio, però lei si scansa. “Non qui che mi conoscono”, mi dice. “Vieni domani dove lavoro. A Palermo. La profumeria che sta in corso Calatafimi 307”.

Lilia Geraci si chiamava.

Me lo ricordo ancora.

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