Sul ventre della Pachamama | Perú
di Laura Moretuzzo
A Humahuaca, nel nordovest argentino al confine con Bolivia e Cile, le cicatrici della terra, scavate dal Rio Grande, hanno i colori dell’arcobaleno. A Humahuaca il respiro si fa affannoso alla ricerca delle rare particelle d’ossigeno sopravvissute ai 3000 metri. A Humahuaca ci sono vallate che si perdono all’orizzonte, con i cactus più grandi del mondo. E poi c’è lei. Lirio.
L’idea era raggiungere Humahuaca percorrendo la Ruta 40. Non solo. La regola era «dito all’aria e faccia sorridente». Ma dopo mesi di viaggio lungo questa strada abbiamo appreso che a tratti si interrompe o diventa impercorribile. Percorrere per intero gli oltre 5000 km che la strada copre unendo da sud a nord ben undici province è quindi praticamente impossibile, tanto più in autostop. Così, nel nordovest argentino, ci siamo visti obbligati a uscire di rotta più volte. Dopo una breve deviazione abbiamo ripreso la Ruta a Belén per risalire una vallata dietro l’altra – quebrada se vogliamo dirla bene – passando per Santa Maria, Cafayate, San Carlos, Angastaco, Molinos, Seclantas, Cachi. Pausa. Qui la strada non si interrompe, ma prosegue fino a San Antonio de los Cobres in pessime condizioni, dove per «pessime condizioni» si intende precisamente ciò che l’espressione vuole dire. Incrociare anche un solo veicolo che percorra la carretera diventerebbe un’impresa utopica! Ma soprattutto la carta geografica insiste che Humahuaca non incrocia proprio la famigerata Ruta 40, ma si trova lungo la statale 9, quella che porta dritto dritto a La Quiaca sul confine boliviano. Ci rassegniamo e, seppur a malincuore, accantoniamo il progetto Ruta 40 e scegliamo la via più facile. Uno scarcassato autobus che porta diretti fino a Salta dove si cambia in direzione Humahuaca, poco oltre il Tropico del Capricorno.
La cittadina della Quebrada di Humahuaca, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2003, si presenta come un tranquillo paesino sulle Ande, colorato dalle bancarelle di artigianato e dominato dal monumento agli eroi dell’indipendenza. Perché abbiamo insistito per venire quassù, a più di 3000 metri? Perché siamo in questo assolato paesino scandito da basse case di mattone crudo che lo tingono di un monocromatico ocra? Perché qui piuttosto che nella passionale Buenos Aires, tanto per dirne una? Noi all’epoca non lo sapevamo, ma era stata la Pachamama a chiamarci qui. E lei, ovviamente, Lirio, il suo tramite. Lei che mentre camminiamo annoiati lungo le sottili vie del centro ci invita nel suo botteghino in cui vende lomitos – semplici panini con filetto di carne – insieme a marito, figlia e nipoti. Lei che invece di servire la gente lascia il banco incustodito e ci accompagna nel retrobottega. Lei che ci fornisce tutti gli ingredienti e vuole una pizza.
Bastano poche ore insieme e Lirio già ha capito chi siamo. Se lei è una maestra, discendente della popolazione indigena dei Kollas, che ora fa la nonna, noi siamo viaggiatori che la Pachamama ha richiamato a sé. E che ora camminano sul suo ventre alla ricerca di risposte. La Pachamama – in lingua quechua «Madre del Tempo» – è la dea della terra e della fertilità, divinità venerata dagli Inca e da altri popoli abitanti l’altipiano andino. A lei, benevola in superficie e terribile nel sottosuolo, vengono tutt’oggi riservate offerte per propiziare il raccolto, siano esse foglie di coca o feti di lama. Noi, che di tutto questo sappiamo ben poco, ci ritroviamo presto immersi in discussioni interminabili sul ruolo della natura e della madre terra nella nostra vita di tutti i giorni. Qui, sulle Ande, la natura è venerata come un dio e ogni cosa, dalle montagne alla terra, dai fiumi alle piante, è un essere non solo materiale ma anche e soprattutto spirituale, vivo e profondamente sacro. La giornata termina a casa di Lirio, suoi ospiti, ignari di ciò che ha in serbo per noi.
Il mattino seguente la sveglia suona presto e in breve ci ritroviamo in otto a bordo de la Roja, una vecchia Ford Falcon versione «agreste», che lungo le strade dell’altipiano andino sbuffa e ansima a ogni pendio. Destinazione: Abra Pampa, cittadina di novemila anime ai confini con la Bolivia, dove Lirio è nata e ha vissuto la sua gioventù. In paese compriamo carne di agnello e il necessario per un asado (l’equivalente della nostra grigliata), una bottiglia di vino, un po’ di tabacco e le immancabili foglie di coca. Poi ci dirigiamo verso il Huamkara, monte sacro all’ingresso della città. È qui che Lirio ha voluto portarci, ai piedi di questo gigante sacro dal cuore di quarzo e il mantello di arena color ocra. Il nostro compito sarà scalarlo, piedi e mani affondati nella sabbia che lo ricopre, un passo alla volta a causa del soroche, il mal d’altitudine che non risparmia nessuno in cammino sulle Ande. Ad aiutarci sono le foglie di coca, pianta sacra per eccellenza su queste montagne, nonché unico rimedio al malessere causato dall’altezza. Raggiunta la vetta, riempiti polmoni e anima, si scende dal gigante nella maniera più naturale e innocente: lasciandosi rotolare sulla sabbia bollente, avvolti dalle vibrazioni che il cuore della montagna sprigiona al nostro passaggio. Giunti alla base, Lirio ci avvisa che è arrivato il momento. È l’ora di ringraziare la Pachamama e chiederle protezione. Bruciamo un po’ di legna per ottenere le braci, sopra le quali si pongono erbe, incensi e tabacco, il cosiddetto sahumerio. Ci disponiamo in cerchio, tenendoci per mano, e Lirio prega la Madre Terra chiedendole di proteggerci lungo il cammino. Anche il più scettico non potrebbe fare a meno di percepire l’energia spirituale che aleggia nell’aria. A turno ognuno di noi entra nel cerchio, mentre Lirio dirige il fumo in modo che investa il nostro corpo, per purificarci, e renderci capaci, con una nuova consapevolezza, di superare qualsiasi ostacolo si materializzi sul nostro cammino. Non so per quanto tempo rimango ad occhi chiusi, inspirando il fumo che mi avvolge, ma sento che ciò che sta accadendo appartiene a un rito sacro, vecchio di millenni. Quando tutti siamo stati purificati dalle energie negative ci sediamo a terra e banchettiamo come una famiglia, mentre nel cerchio circolano un bicchiere di vino -il primo sorso versato a terra come offerta -e la pipa sacra, il cui passaggio scandisce il ritmo del rituale.
È in un modo così semplice che la Madre Terra si è rivelata a noi, aiutandoci a ridimensionare la nostra consapevolezza di uomini. È camminando sul suo ventre e mettendosi in discussione che le risposte arriveranno. E perché no, forse anche altre domande.
Viaggio dei sogni l’Altro Mondo | Perché il mio sogno sarebbe girare il mondo per visitare i vari ecovillaggi e farne poi un reportage dal titolo «gli hippy del ventunesimo secolo» ovvero coloro che si oppongono al modello attuale di società per proporne, però -a differenza degli hippy degli anni ‘70 -uno nuovo alternativo, sostenibile e sano!
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