Cristo si è fermato a Belgrado | Balcani

di Giulia de Dominicis

Epilogo (al posto del prologo) a Pirano - Davvero incantevole, il porto di Pirano. Ci si perde volentieri nei vicoli annodati di questa piccola località slovena. L'Italia è vicina, domani si torna a casa. È quasi mezzanotte: Eugenio, Alberto e Franco si incamminano verso le mura, mentre io cambio direzione e salgo verso la chiesa di San Giorgio, alla ricerca di un panorama più ampio. Attraverso il sagrato per caso e mi affaccio: sotto la roccia a strapiombo c'è solo mare, una massa scura interrotta dalle luci all'orizzonte.Trieste sta lì dritta davanti a me e aguzzando gli occhi si può quasi fare finta di riconoscere piazza Unità d'Italia, dove questo viaggio è iniziato ormai venti giorni fa.

Postumia - Proprio da Trieste (aggiungere sempre: Mitteleuropa, Svevo e Joyce, incontro di culture) siamo partiti verso la Slovenia. Prima tappa: Postojna (Postumia). Non sono le famose grotte la ragione di questa sosta, ma l'ospitalità che speriamo di ricevere da un sacerdote amico di Franco. Arriviamo alle sette e mezzo, la chiesa è gremita per la messa serale: dobbiamo aspettare fino alle otto per avvicinare Don Luka Tul. Nato a Pirano, è stato mandato in questa parrocchia pochi giorni fa, al termine degli studi a Roma. Non solo parla perfettamente l'italiano, ma spesso nei suoi discorsi trapela qualche espressione in romanesco, e la miscela con le poche sbavature di sapore sloveno è esplosiva : «Ahò, pazzesco, siete venuti fin qui!». Per cena ci riuniamo attorno alla tavola di una taverna fuori città.Tra una portata e l'altra fanno capolino la storia recente e la guerra dei Balcani. Don Luka ne parla con serenità, in fondo la Slovenia è entrata nel conflitto per pochi giorni e da lì in poi ha lavorato compatta a uno sviluppo economico che ha del miracoloso. Per questo ormai gli stati vicini non reggono il confronto: «La Serbia di oggi è la Slovenia di venti anni fa. Nonostante fossero i serbi ad attaccare, da loro la guerra ha fatto molti danni. Vedrete il contrasto tra Ljubljana e Belgrado e tra Belgrado e i villaggi circostanti». Le sue parole ci sarebbero presto tornate in mente...

Lubiana - Lasciamo il silenzio di Postojna in direzione della capitale slovena, in effetti ordinata e pulita. Il costo della vita è assolutamente in linea con quello italiano, dunque alto per le nostre aspettative. La successione ininterrotta di lounge bar che costeggiano il fiume Ljubljanica mi ricorda da vicino l'atmosfera dei navigli milanesi: si può scegliere tra l'ambientazione cubana e quella irlandese, magari confrontando i prezzi dei cocktail per vedere dove si spende meno. Tutto ha un sapore di casa quasi scomodo, anche quando entriamo allaMetelkova: era una caserma, oggi è un centro sociale che le guide segnalano come punto nevralgico della nightlife locale più autentica. In mezzo a un gruppo festante di radical-chic mi chiedo cosa ricorderò in particolare di Ljubljana. Non trovo risposte.

Belgrado - Siamo quasi delusi quando partiamo per Belgrado. Quello che vedremo sarà tutto così nuovo, europeo, omologato? Cosa stiamo cercando? Ma è solo questione di tempo.

Belgrado ci accoglie con il suo traffico caotico e con i suoi contrasti tra oriente e occidente, tra sviluppo e arretratezza. Accendiamo la radio. La nostra piccola Panda viene travolta da ritmi finalmente balcanici, mentre una folla colorata di giovanissimi lavavetri ci impedisce di procedere oltre l'incrocio: quando scoprono che davvero, come cercavamo di dire da cinque minuti, non abbiamo ancora dinari ma solo euro, scompaiono veloci imprecando contro di noi. Scivoliamo alla ricerca di un ostello finché, fermi a un semaforo, un'immagine micidiale colpisce i nostri occhi: ai lati della strada stanno quasi in bilico due palazzi gemelli, sventrati e pericolanti, niente che li identifichi. Un passante rivelerà ad Alberto che proprio lì era dislocato il quartier generale dell'esercito serbo durante la guerra...

Belgrado magnetica, Belgrado maledetta. Un poliziotto ci consiglia nel suo inglese stentato un parcheggio custodito dove lasciare l'auto in tutta sicurezza. Qualche ora più tardi la beffa: ritroviamo la Panda con un finestrino spaccato: due tende, un ukulele e una borsa in meno.

Io e Franco ci occupiamo della denuncia. Arriviamo alla stazione di polizia e un agente ci investe con le sue parole (serbe). Capiamo solo «No engleski, no engleski», per il resto che avrà detto? Dopo un'ora e un quarto veniamo accompagnati in uno stanzino con due uomini, uno di loro fuma ininterrottamente sotto il cartello VIETATO FUMARE. Pare che lui parli qualche parola d'inglese. Pare che l'altro lo capisca. Pare. In questa giungla linguistica non c'è liana cui appigliarsi per stendere il verbale della denuncia. Come tradurre ukulele?

Accettiamo mandolinu, l'unica parola comprensibile su quel foglio. Mi chiedono cosa tenevo nella borsa: «An umbrella, three swimming suits, a scarf... anyway, they were not important things...». Risponde una voce secca: «Not important? Not important for you!».

Belgrado maledetta, Belgrado grottesca. Belgrado comunque magnetica.

Riparato il finestrino scappiamo verso il confine bosniaco. Don Luka aveva ragione: la differenza tra la capitale e la campagna circostante si fa notare. Penso che Cristo si è fermato a Belgrado, perché non c'è traccia di Dio in queste distese di cielo grigio, di rughe e disperazione, di strade dissestate e casupole traballanti.

Dobbiamo attraversare il confine per ricominciare a respirare con leggerezza. Il paesaggio si fa più verde e i centri abitati appaiono per lo meno vivi. In uno di questi ci fermiamo a chiedere la strada per Sarajevo, ma il nostro interlocutore di turno non conosce l'inglese e ci risponde con il solito «No engleski». Poi un lampo: vede la targa italiana, si mette a ridere ed esclama: «E potevate dirmelo che siete italiani, porco zio!». È subito amicizia: ci fermiamo con lui e la sua famiglia in un bar vicino, dove ascoltiamo senza pause il racconto spontaneo di una vita rocambolesca. «A vent'anni, dopo il militare, ho capito che le cose si mettevano male e me ne sono andato. Ho rischiato, e sono arrivato in Svizzera, dove ho costruito il mio lavoro, la mia famiglia. Qui la guerra ha spazzato tutto, chi ce l'ha fatta non è più tornato, io invece sono venuto ogni estate e sono riuscito anche a ricostruire la casa dove sono nato». Prosegue, sempre col sorriso: «L'estate che mio figlio aveva un anno non facevano più uscire nessuno dal confine.Mi hanno puntato la pistola alla testa, alla fine sono passato perché avevo i soldi e ho pagato». Nelle sue parole non c'è fiducia nel presente: «La Bosnia non esiste: esistono i serbi, i croati, i musulmani, è tutto troppo un miscuglio. Il futuro? Siamo nelle mani dell'Europa».

Sarajevo - Raggiungiamo le sponde del fiumeMiljacka a sera inoltrata. E Sarajevo ci appare per come è: bellissima, da far male. L'odore forte di ćevapčići (carne di agnello alla griglia) si diffonde tra gli innumerevoli minareti incuneati tra le montagne, e il canto del muezzin si confonde con gli schiamazzi dei giovani che animano il quartiere di Baščaršija. La città trabocca di turisti sopraggiunti per il Film Festival: non sembra possibile che quindici anni fa gli unici stranieri ammessi fossero i pochi giornalisti segregati dentro l'Holiday Inn sul purtroppo celebre «viale dei cecchini». Decidiamo di unirci a una visita guidata dei «luoghi della guerra». Sembra quasi macabro, ma troppa è la voglia di vedere, di capire. Il pullmino ci porta fuori città, oltre l'aeroporto, per mostrarci l'uscita del tunnel sotterraneo che gli abitanti di Sarajevo costruirono per eludere l'accerchiamento serbo e ricevere materie prime dall'esterno. La nostra guida, Elly, esclama orgogliosa: «The tunnel was our little miracle».

Si coglie nelle sue parole tutto il disagio nei confronti dell'impotenza, se non della colpevolezza, della politica internazionale: «Solo il massacro di Srebrenica ha convinto tutti che questa era molto più di una guerra civile. Ma intanto sono morte più di ottomila persone in otto giorni». Faccio quattro conti e realizzo che Elly ha la mia età: quando io giocavo in cortile, lei rischiava la vita per recuperare un po' di acqua. Ascolto le sue ultime parole: «We survived. On our own. This is our message».

Epilogo (vero) - Ferragosto a Dubrovnik prima di proseguire verso nord e tornare a casa.

Sullo Stradun che taglia la città vecchia passano frotte di turisti italiani chiassosi, alcuni riconoscibili dall'abusato po-popopo-popo-pooo. Per fuggirli mi imbuco in un vicolo ed entro alla galleria fotografica War Photo Limited. Scatti dopo scatti arrivo alla sezione permanente sulla ex-Jugoslavia. Una foto mi fulmina: Fall 1994, Bosnian soldiers take a break on the frontier. Sul muro crivellato, la scrittaWELCOME TO SARAJEVO.

Questi sono i miei Balcani. Sono il sorriso di Don Luka, sono chi ha riparato il finestrino della Panda senza rancore e chi crede nell'Europa per il futuro della Bosnia, sono Elly che ci ha salutato con lo sguardo teso e fiero e i soldati con la cresta punk che si fumano una sigaretta in un momento di pausa alla frontiera.

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