Testo di Chiara Angeli, foto di Giulia Rognoni
Il vaso è avvolto in carta da pacchi color ocra: nonostante la penombra della cantina dei nonni è facile intuire la cura riservata alle cose preziose. Lo scarto: eleganti foglie d’edera decorano la ceramica bianca, alla base un marchio con una corona, una P e una M maiuscole, una scritta: Industria Argentina. Ho ereditato questa casa dai nonni; dei tanti oggetti ritrovati e appartenuti ad altre vite e ad altri tempi, cerco di dare significato. Questo vaso parla di un Paese lontano, e sembra mandarmi un invito...
Nonna Alba aveva lasciato Cividale del Friuli nel giugno del 1952 per raggiungere suo marito a Buenos Aires e là aveva poi lavorato in una fabbrica di maioliche. Quante volte me l’ha raccontato. Cerco qualche informazione in più in rete, tra i friulani emigrati nella Parigi del Sudamerica, ma ne ricavo solo piste sbagliate, mail senza risposta, telefonate in altri fusi orari concluse con “No entiendo nada!”. Finalmente, incrociando i libretti del lavoro e le pregunte nella Camera di Commercio di Buenos Aires, la sigla PM si lega a un nome e a un indirizzo: PM Porcelana Marquesa, in Ayachuco, Bernal. È ora di comprare un biglietto aereo.
Può sembrare ridicolo partire per un viaggio così impegnativo mossi solo dalla curiosità per un vaso trovato in cantina, ma anche Bruce Chatwin, il santo protettore di tutti noi viaggiatori d’Argentina, raccontava che fu un vecchio pezzo di pelle di brontosauro (o almeno così lui credeva), racchiuso in un armadietto nella stanza da pranzo della nonna, a spingere la sua immaginazione verso la Patagonia (“In Patagonia”, 1977).
Buenos Aires a inizio gennaio (ma qui è piena estate) mi accoglie con “You got it” di Roy Oberson, che il tassista dall’aeroporto Pistarini canta battendo il ritmo con le dita sul volante. Tutta l’acqua che si vede all’orizzonte, a destra e sinistra della carreggiata, racconta, è sempre il Rio de la Plata, anche se sembra l’Atlantico. D’altronde nell’Argentina del 2020 restare a galla è l’obiettivo di tutti: il tasso di povertà è al 35%, l’inflazione supera il 50%. In Calle Florida le grida continue - “Cambio, cambio, cambio!” – dei cambiavaluta assordano le porteñe eleganti e i turisti del microcentro.
Racconto dei miei nonni a Estéban, guida e videomaker ventisettenne. Mi risponde laconico: “Gli argentini scesero dalle barche”. Manca una vera identità nazionale, un patriottismo all’europea: Buenos Aires scardina le costruzioni mentali e mescola le provenienze geografiche. Per adesso però mi dimentico del famoso vaso e la suggestione di Chatwin mi porta verso la Patagonia. Tre ore di volo più a sud, viaggio su un camion lungo il Lago Argentino, attraverso Estancia Anita. Con i suoi 74.000 ettari è la più vasta fattoria della provincia di Santa Cruz e solo questi mezzi possono affrontare indenni le strade accidentate del latifondo. Ma, a parte qualche disagio, non ci sono altri problemi. Doveva essere ben diverso nel 1955, quando qui era ancora viva l’eco delle rivolte degli anarchici negli anni Venti e della repressione omicida dell’esercito, se durante una trasferta di lavoro di nonno Riccardo l'ufficio del personale della FAMAG-Industria Talleres Metalúrgicos si premurò di rassicurare la moglie Alba con una lettera "para su tranquilidad".
L’aria è fresca, il sole limpido, l’orizzonte infinito, da ogni lato della strada. Anche il Lago Argentino sembra un mare con il suo immenso bacino d'acqua gelida, quasi irreale nella sua bellezza. A El Calafate, avamposto per il ghiacciaio Perito Moreno, albeggia alle cinque di mattina e tramonta dopo le dieci di sera: in questa overdose di luce, dopo cena un padre rincorre il figlio nel roseto dell'ostello e un turista francese fa yoga nel prato, sotto gli occhi di un cane color miele. Invece duecento chilometri più a nord, nel nuovissimo ostello di El Chaltén, al cospetto del Fitz Roy, alle tre del mattino se non riesci a dormire senti solo il vento oltre la finestra e il suono di una sirena. Il clima cambia con velocità sorprendente in questa città fantasma, dove gli alberghi degli stranieri sono pieni ma per strada spesso non c'è nessuno.
Un bus di linea ci porta all’aeroporto di El Calafate lungo la leggendaria Ruta 40, con una sosta nello storico Parador La Leona, dove avventori al bancone confrontano banconote vere e contraffatte. Poi il volo per la capitale. Dopo le temperature andine, l'umidità al risveglio a Buenos Aires toglie il fiato. Poi alle sei di un martedì pomeriggio, con tanti chilometri alle spalle, mi ritrovo finalmente davanti all’indirizzo che cercavo. Sergio, architetto di cantiere friulano giunto a Buenos Aires nel 1949, mi ha guidato qui con la sua vecchia Fiat Punto, oltrepassando San Telmo, gli edifici colorati della Boca e il comune di Avellaneda, fuori dalla città metropolitana. A Bernal, venti chilometri a sud della capitale, c'è ancora luce. Le chiavi le ha trovate lui. Invece della Porcelana Marquesa l’ingresso conduce però in un club sportivo: al bar un ragazzo con la maglia dell’Inter vende pizza, hamburguesos e medialunas. Dopo gli spogliatoi esterni, una scala di fortuna è l’unico mezzo per salire nel 1952. Vietato guardare in basso: si cade nel vuoto sull’erba sintetica del nuovissimo campo di calcio a cinque, un piano più sotto. Approdo su un basamento di cemento grezzo. Avanzo per una decina di metri ed entro nella fabbrica attraverso il varco di quella che fu una porta. Le matrici sono ovunque: sugli scaffali alle pareti, una incastrata nell'altra, sui ripiani da lavoro, ammassate negli angoli a formare pile. È una macchina del tempo. Nella stanza seguente due fori sul pavimento indicano la posizione dei forni. Da qualche parte, a cercarlo bene, ci dev’essere ancora il fatidico marchio "PM Industria Argentina". Mi ritrovo a fantasticare che, con una buona pulita e qualche riparazione, forse si potrebbe far ripartire la fabbrica e creare un vaso uguale a quello ritrovato in una cantina in Friuli, in un altro emisfero; si potrebbe chiudere il cerchio dei ricordi.
Reportage
Improvvisi
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