Seguendo i saliscendi della marea
In Nuova Scozia (Canada) tra nebbia, suoni di cornamusa, barbecue, aragoste e chowder

Testo e foto di Francesca Mazzoni da Azione

Seguendo i saliscendi della marea

Il suono di una cornamusa riempie tutto il parcheggio; il suonatore però resta a lungo invisibile. La nebbia è fitta e il forte odore di salmastro impregna ogni cosa. Sono in Nuova Scozia: è una delle province più piccole del Canada ma, anche così, è comunque più grande della Svizzera.

La Nuova Scozia è avvolta dalle agitate acque dell’Atlantico: nessun luogo dista più di sessanta chilometri dall’oceano. Avevo messo in conto il meteo capriccioso e le giornate brumose, ma speravo almeno di riuscire a fotografare la lanterna rossa di Peggy’s Cove, uno dei fari più scenografici al mondo. Nel corso dei secoli la forza dell’acqua ha scolpito e addolcito le rocce di granito, mentre il faro se l’è vista brutta più volte per i frequenti uragani. Anche così, nessun divieto di avvicinarsi per i turisti: come sempre in Canada, la libertà prima di tutto, anche quella di essere trascinati via dalle onde. Stasera, comunque, il tramonto dovrò immaginarmelo, visto che il cielo è coperto.

Per vivere qui servono fantasia e spirito di adattamento.

Il giorno seguente risalgo verso nord in direzione dell’isola di Capo Bretone. Dopo alcune ore, come un’oasi nel deserto, appare un emporio, la cui vetrina esibisce orgogliosamente camice di flanella a quadri, indispensabili anche nella breve estate delle province marittime. L’abbondanza di merci nel reparto surgelati è sempre un indice attendibile d’isolamento. Mi fiondo sullo scaffale dei bocconcini di carne essiccata, il commesso m’invita a scegliere quelli di bisonte: «Sono i migliori, indigeni al cento per cento». Anche la Nuova Scozia è terra delle Prime nazioni, nello specifico della popolazione Mi’kmaq, che abitava questo territorio ben cinquemila anni prima dell’arrivo degli europei, approdati qui solo nel 1497.

Proseguo il mio viaggio lungo il famoso Cabot Trail, trecento chilometri di strada panoramica stretta tra scogliere rocciose da un lato e montagne dall’altro. Mi fermo a Dingwall per qualche giorno per esplorare la punta più settentrionale della provincia, a picco sull’oceano. In questa zona di turisti se ne vedono pochi e non mi resta che affittare un cottage. Pur senza il numero civico, individuare l’appartamento rosa magenta è un gioco da ragazzi. Un breve scambio di battute con i due proprietari, Colin e Charlene, e subito rimedio un invito a cena. Scarico i bagagli, mi procuro un piccolo regalo per contraccambiare la gentilezza e mi ritrovo nel loro giardino con una birra in mano.

«Lavoro cinque settimane di fila nelle miniere dei Territori del Nord-Ovest, poi torno a casa e ci resto una quindicina di giorni», racconta Colin, armeggiando con la brace, mentre la moglie Charlene prepara una salsa con aglio e prezzemolo. «I pescatori di aragoste guadagnano moltissimo, fino a centomila dollari canadesi a stagione, anche se la pesca è consentita solo due volte all’anno», prosegue Colin, intento ad aprire per il lungo i carapaci. È un fiume di parole e in poco tempo imparo che qui si trovano le migliori aragoste, che per bollirle va usata l’acqua dell’oceano ed esiste perfino un gusto aragosta nei gelati. Quando chiedo se domani il tempo migliorerà, risponde lapidario: «Potrebbe essere anche peggio».

Riprendo il viaggio on the road perlustrando piccoli porticcioli indaffaratissimi, dove numerose barche colorate vanno e vengono. Dal finestrino gli occhi si posano su baie silenziose e su soffici volpi che spuntano dai fitti boschi ai lati della strada. Immancabile la sosta gastronomica, sullo sfondo di un faro, al food truck che serve il chowder, una densissima zuppetta di pesce a base di patate, panna e vongole. A qualche metro di distanza una signora si dedica alla pittura en plen air. È qui da diverse ore, lottando per dipingere un paesaggio in costante mutamento. «La baia di Fundy ha le maree più alte al mondo. Due volte al giorno il livello del mare sale anche di venti metri» racconta Sharon, indicando con il pennello un punto della baia. Resto con lei per una mezz’oretta, mentre l’acqua sale così rapidamente da divorarsi la spiaggia come un ingordo boa con la sua preda.

Punto alla mia ultima tappa, sempre all’interno della baia di Fundy, ovvero la cittadina di Parrsboro, famosa per le sue scogliere ricche di fossili preistorici. Tutto è graziosamente perfetto. I giardini delle abitazioni sono verdi, curati e il lupino selvatico cresce abbondante, donando un tocco di colore. Sul mio B&B, il The Maple Inn, sventola la bandiera canadese. Una carta da parati floreale avvolge le stanze ricche di arredi vissuti, tessuti e fotografie.

Ci accoglie il sorriso di Paul, compositore, direttore d’orchestra e proprietario di questa piccola locanda con solo otto camere. «Ci siamo trasferiti qui tre anni fa – racconta – per provare a ricominciare a vivere. Nel 2019 mia moglie Mackenzie ha avuto un ictus e dopo appena sei settimane il suo figlio sedicenne si è suicidato. Avevamo bisogno di un luogo che ci aiutasse a guarire queste ferite», continua, porgendomi una tazza di tè e invitandomi nel salottino. «Parrsboro è perfetta per lasciarsi alle spalle la vita frenetica delle metropoli americane» aggiunge con convinzione. «Con i vicini di casa si chiacchiera per strada, ci si prende cura l’uno dell’altro. Dopo una settimana dal nostro arrivo, senza conoscerci, avevano già organizzato a sorpresa la festa di compleanno per i miei cinquant’anni».

Il mio sguardo punta verso la finestra. È quasi l’ora del tramonto e oggi stranamente il meteo sembra collaborare. Prendo il sentiero verso la spiaggia senza macchina fotografica, alla ricerca soltanto di un momento di leggerezza. Niente di speciale: semplicemente Canada.

 

Il faro gelateria di Neils Harbour
Il porticciolo di Lunenburg
Joggins a caccia di fossili
Lungo il Cabot Trail
Sharon, baia di Fundy
Suonatore di cornamusa a Peggys Cove
Villaggio di pescatori

 

 


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