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Il mondo a coloriDa Ulisse in poi, il viaggio ci regala una mente colorata, aperta alla bellezza e alla varietà del creato. Ecco perché all’inizio di questo nuovo anno – dopo lunghi mesi in bianco e nero, desolatamente immobili – abbiamo voluto ricordare i colori del mondo, raccontando alcuni luoghi dove una tinta, una gradazione, improntano di sé tutto l’ambiente circostante, risvegliando la nostra meraviglia. Ci fa da guida il pittore e viaggiatore Stefano Faravelli, nostro insegnante. È un viaggio tutto immaginario (per ora), ma anche un’ispirazione per il prossimo anno, quando torneremo a sollevare coi nostri passi la polvere della strada.
La città rossa (Marrakech, Marocco) Marrakech, la Città rossa. Anzi rosa. Migra una scheggia d’intonaco sulla mia pagina: frammento che è di tutti i muri, tutti gli archi, tutti i driba, i dedali di questa città labirinto. Ora è un’isola nel mare bianco della carta, una nota di rosa sporco come talvolta è il fango seccato al sole. Nella mia palette di acquerelli la cerco tra l’ocra rossa francese e l’ossido di ferro detto rosso veneziano. Colori preistorici. Questo apporto oggettuale è già una piccola melodia: nell’economia imposta dal suo colore ritraggo la fuga di un derb e l’infilata di archi moreschi nella quale mi sono perso cercando la Zawiya di Sidi Bel Abbès. Mentre lavoro e il profumo di un tajine mi avvolge, e le voci dei bambini si impigliano alle ragnatele di fili sospesi, e i passanti sbirciano il progredire del disegno, io so di essere già stato qui. Non so quando, ma Marrakech è la mia città. Poi mi viene in mente che Elias Canetti racconta di aver avuto questa stessa sensazione. E allora non so più se mi sono involontariamente appropriato di una suggestione letteraria e ne ho fatto un falso ricordo anamnestico o se è questa stessa città, Circe della memoria, a stregare i suoi visitatori innamorati con l’illusione di uno struggente déjà-vu. In un vecchio libro trovo questi versi di Ennsila, oscuro poeta locale del XIX secolo: “Oh mon amie, tant qu’il resterà un souffle de vie, je supplierai le Seigneur de me réunir avec ma belle, qu’Il permette mon retour à la Ville Rouge…”.
Verde stupore (Foresta del Madagascar) L’occhio umano percepisce radiazioni di lunghezza d'onda fra 400 e 700 nanometri, che cromaticamente vanno dal rosso al verde al blu. Ma le sfumature che hanno lunghezze d'onda comprese fra i 490 e i 570 nanometri si distinguono meglio e sono quelle corrispondenti al verde. Questa maggiore capacità di percepire la gamma dei verdi, rispetto ad altre sfumature di colori, potrebbe essere una vestigia dell’adattamento umano ai rischi della vita nelle foreste primordiali. Vedere più sfumature di verde vorrebbe dire percepire con maggior precisione la presenza di una preda o di un predatore, riconoscere una pianta commestibile da una che non lo è. Per quanto queste spiegazioni “scientiste” mi sembrino sempre un po’ rozze, per un pittore la foresta pluviale è una straordinaria sfida cromatica. Avevo portato con me una scatolina apposita con una gamma di verdi ma naturalmente tutta la palette ha concorso alla resa della viriditas, vuoi per contrasto, vuoi per mescolanza. E su tutto fu determinante l’apporto del bianco. Perché il re dei colori della foresta è il biancastro dei miceti: ascomiceti, mixomiceti… muffe insomma. È presente quasi ovunque come maculatura, nei tronchi e sui rami, nei festoni di liane e sulle marcescenti foglie del substrato; pronto a colonizzare ogni corpo morto e a prevalere su ogni vivente. Un grigio verdastro: ecco il vero colore della foresta.
Giallo Gingko (Hida, Giappone) Per viaggiare in Giappone avevo preferito l’autunno, memore di quell’haiku di John Donne, poeta elisabettiano: Né la primavera né la bellezza d’estate hanno la grazia / che ho visto sul viso dell’autunno. Più delle nevicate dei petali dei ciliegi, dunque, immagine di un’impermanenza passeggera perché preludio al rigoglio del frutto, mi seduceva il tempo del vero sfiorire, celebrato magistralmente da quest’altro haiku, tutto giapponese, del monaco shintoista Aratika Moritake (1452-1549): Da ogni cosa che cade / nasce qualcosa / che assomiglia all’autunno. A quel cadere dovevano ispirarsi i miei “Taccuini dal mondo fluttuante”. Così praticai quella che gli antichi giapponesi chiamavano momijigari, la “caccia all’acero”, che è una caccia sottile (avrebbe detto Jünger) al rosso più rutilante delle foglie stellate dell’Acer Japonicum. Ma il culmine della grazia sul viso dell’autunno non fu la chioma infuocata dell’acero, bensì quella giallo cadmio di un Gingko, il sacro Gingko del Tempio Kokubunji nella prefettura di Hida, non lontano da Kyoto, vecchio di milleduecento anni. In margine all’acquerello ho annotato un mio fuggevole pensiero: “In primavera e in estate l’albero si nutre di luce. Ma in autunno diventa luce. È un buon esempio di come si dovrebbe invecchiare”.
I colori dei sogni (Dancalia, Etiopia) Si può dubitare che l’antico vulcano di Dallol, ai margini del Lago Assale in Dancalia, sia una contrada terrestre. Ma cos’è allora questo giardino lisergico di sale e di zolfo? Con fortezze e castelli di vetro, laghi viola e verde mela? La meraviglia era tale che non ho dipinto sul posto che due paginette. Il suolo è vivo. Parla, borbotta, sussulta, sfiata aliti mefitici. Forbidden planet: “Attento a dove metti i piedi!” grida D., mia compagna di viaggio in queste terre ballerine. Poi mi racconta che nel corso di una sua escursione la crosta vitrea ha ceduto e lei è finita con un piede in una polla di acqua bollente. Al campo mi mostra la cicatrice circolare lasciata dall’ustione.
Testi e tavole di Stefano Faravelli
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